A Karlsruhe, nella fabbrica del restauro digitale
Lo ZKM Centre for Art and Media custodisce circa 500 opere di questo genere, e dispone di un armamentario di oggetti e strumenti decisamente più complesso e bizzarro di quelli solitamente utilizzati da chi si occupa di restauro tradizionale. Dall’articolo della BBC, pubblicato lo scorso ottobre, si apprende ad esempio che circa 1.600 apparecchi televisivi dotati di tubo catodico sono stati accumulati nel corso del tempo per tenere in vita capolavori come la “Fontana di Versailles”, creata dal pioniere della videoarte Nam June Paik. L’oggetto in questione è frutto dell’assemblaggio di ben 40 televisori, costantemente bisognosi di riparazione, ed è anche per questo motivo che i curatori del museo hanno setacciato le aste di eBay e si sono spinti anche oltre, stringendo una vera e proprio alleanza con i gestori delle vicine discariche: da loro arriva un flusso costante di “pezzi di ricambio”, e sulla rotta inversa viaggiano carichi di sigarette in segno di ricompensa.
Ma a ben vedere questo è solo uno degli aspetti più caratteristici, e tutto sommato meno complessi, dell’opera di preservazione svolta a Karlsruhe. A spiegarlo alla BBC è Bernhard Serexhe, che oltre ad essere il principale curatore del media museum del centro, è anche a capo del progetto europeo “Digital art conservation”. “Più veloce è l’innovazione tecnologica – spiega – meno durano le nuove opere d’arte”. Questo il motivo per cui l’altra parola chiave in voga nel centro è migrazione: “abbiamo bisogno di una second strategy – aggiunge il curatore – dobbiamo migrare costantemente i contenuti di piattaforma in piattaforma, o ancora i programmi su nuovi sistemi operativi, svolgendo un lavoro che col tempo diventa sempre più complesso e costoso”. Ciò è precisamente quanto accaduto con il tentativo di tenere in vita “The Legibile City”, opera creata nel 1989 da Jeffrey Shaw e annoverata da Serexhe tra i capisaldi dell’arte digitale. Stiamo parlando di quella che potremmo definire una cyclette a realtà aumentata, in grado di condurre il visitatore tra labirinti di parole tridimensionali, dedicate a tre diverse città. Con un ritmo della narrazione per giunta, direttamente proporzionale al passo di marcia: più veloce la pedalata, maggiore lo scorrimento dei testi lungo il percorso. Un gioco non proprio da ragazzi, almeno per quanto riguarda l’ideazione e la programmazione, e anche per ciò che attiene alla conservazione. L’opera è stata infatti realizzata con un computer Silicon Graphics ormai fuori commercio da 16 anni, e se è vero che il museo tedesco dispone ancora di 10 modelli di questa tipologia, la paura che allo spegnimento dell’ultimo si estingua anche l’opera è comunque notevole. Da ciò la scelta di migrarla su un sistema basato su piattaforma Linux, operazione tutt’altro che banale però, per la quale ci si è avvalsi anche della collaborazione dell’artista, perché, spiega Serexhe, era fondamentale rispettare i suoi desiderata per mantenere intatto il senso del lavoro.
Da storie come questa ed altre raccolte nell’articolo della BBC, viene fuori il ritratto di un centro che ha davvero poco di comune e ordinario. Si apprende ad esempio che le macchine non vengono mai spente, neanche di notte, per evitare eccessivi traumi ai già delicati hardware; o ancora che un altro massiccio fronte di intervento riguarda la trasformazione in digitale di quanto nato in analogico e oggi a serio rischio di obsolescenza. Ciò vale in particolar modo per i video registrati su nastro magnetico. “Nel centro disponiamo di oltre 300 apparecchi in grado di convertire contenuti da una cinquantina di formati diversi – spiega la tecnica del laboratorio video Dorcas Muller – ma parcheggiati in soffitta ne abbiamo molti di più, pronti alla bisogna per le esigenze dei prossimi anni”.
Nel frattempo, mentre la fabbrica del restauro digitale continua a lavorare a pieno regime, c’è chi continua a chiedersi se abbia senso o meno preservare opere e installazioni, pregiudicandone a volte l’aspetto o le funzioni originarie. “O ci abituiamo a rivedere le nostre convenzioni etiche su cosa si intenda per arte – conclude Serexhe – e in questo caso cominciamo a considerarla come qualcosa di meramente performativo, oppure il nostro compito è quello di aderire il più possibile alla sua autenticità di partenza. Prima di prendere in considerazione altre forme di preservazione, sono convinto che la forma e il formato originari debbano essere conservati intatti fin quando possibile”.