Apertura e partecipazione vs. rigore e accuratezza, il dibattito sul crowdsourcing coinvolge anche gli storici
L’articolo pubblicato on line sul Chronicle of Higher Education fa riferimento ad alcuni progetti di crowdsourcing, e in particolare a quello finalizzato alla ricostruzione dell’archivio del Federal War Office, secondo gli storici la più importante agenzia federale nei primi decenni successivi alla nascita degli Stati Uniti d’America, andato totalmente distrutto nel 1800 a causa di un incendio. Un vero e proprio “buco nella storia del Paese”, affermano gli esperti della George Mason University coinvolti nell’operazione, che si sta cercando ora di colmare anche grazie al coinvolgimento di 760 volontari dichiaratisi disponibili a trascrivere le circa 45.000 copie digitali di documenti originari appartenenti all’archivio dell’ufficio, raccolti negli ultimi anni in tutti gli angoli del Paese.
Prendendo spunto da questa iniziativa, nell’articolo si fa riferimento ai pareri di storici ed esperti di classificazione archivistica per provare a capire se il crowdsourcing può essere la nuova frontiera anche nel campo della storia e delle discipline umanistiche, specie in un’epoca caratterizzata da ingenti tagli ai budget di università e centri di ricerca, oppure se le competenze e le conoscenze richieste per la riuscita di simili operazioni escludano di fatto la possibilità di fare affidamento sugli entusiasti e i volontari della domenica, per quanto essi possano essere appassionati e cultori delle materie oggetto dei lavori.
E l’argomento, come capita ormai sistematicamente dalla nascita di Wikipedia, non può che dividere. Da un lato le voci di quanti sottolineano la vastità di alcune operazioni e l’assoluta necessità di contare su braccia e menti esterne per portarle a compimento. Dall’altra, quelle di chi arriccia il naso rispetto ai rischi di contaminazione e abbassamento della qualità che si accompagnano a questo tipo di progetti. Tra gli appartenenti alla seconda categoria, il Chronicle dà spazio all’accademico Edward G. Lengel, che si basa sui risultati di uno specifico progetto, la ricostruzione dell’archivio delle opere del filosofo Jeremy Bentham, per bocciare il crowdsourcing e le ambizioni dei suoi sostenitori. In questo caso, si legge nel testo, a partire dal 2010 circa 1.700 volontari sono stati coinvolti nella imponente opera di trascrizione dei circa 40.000 manoscritti appartenenti allo studioso, portando a casa la copia di oltre 4.000 documenti. Un risultato decisamente modesto secondo Lengel, che cita a riguardo un articolo pubblicato su una rivista di settore e sostiene che se gli storici e gli archivisti che hanno promosso e coordinato il progetto “avessero svolto il proprio lavoro”, piuttosto che trasformarsi in editor e moderatori di forum on line, si sarebbe fatto di più, in maniera molto più meticolosa e accurata, e in minor tempo.
In risposta a un simile purismo però, c’è chi si sofferma sull’effetto paralisi che potrebbe derivare dalle sempre più stingenti politiche di austerità, e invita a considerare i volontari come “colleghi indispensabili” da qui al prossimo futuro. È quanto fa ad esempio il direttore del Progetto Bentham Philip Schofield, sottolineando anche i notevoli ritorni dal punto di vista dell’apertura e della democratizzazione dei saperi che derivano da operazioni 2.0 come quella in capo al suo team.
E se inevitabilmente alcune questioni rimangono aperte – dal numero di volontari realmente attivi e produttivi tra quelli formalmente coinvolti, alla loro capacità di essere oggettivi specie di fronte ad argomenti e temi di natura politica, alle speranze di reclutare persone anche per progetti meno attraenti rispetto a quelli che riguardano le guerre o le biografie di personaggi illustri – la sensazione di fondo è che il principale risultato di questi progetti consista proprio nell’allargamento della partecipazione in campi e discipline finora appannaggio di pochi eruditi.
“Gli editor della George Mason University – si legge in chiusura dell’articolo – hanno dedicato circa mezzora del proprio lavoro giornaliero all’esame e alla gestione dei contributi forniti dai volontari, valutando la qualità delle trascrizioni, creando account e rispondendo a domande. Le trascrizioni sono state ‘abbastanza fedeli’, afferma Ms. Leon, una rappresentante del team. ‘ Gran parte dei timori riguardo al crowdsourcing – dichiara – ha a che fare con il timore che si possano fare disastri, magari anche di proposito, ma noi non abbiamo riscontrato tracce di simili comportamenti distorti’. E i principali vantaggi? Il crowdsourcing allarga le platee coinvolte nei progetti accademici e, continua Ms Leon, offre ai volontari una sensazione di coinvolgimento e partecipazione nella scrittura e nella preservazione della memoria. E se vogliamo cercare argomenti a favore di esperienze e progetti di questo tipo, non si tratta di una cosa di poco conto”.
Leggi l’articolo sul sito del Chronicle of Higher Education (in inglese)