Archivi e archivisti: 10 lezioni apprese “sul campo”

Ci sono cose che si imparano studiando e altre che si apprendono solo sporcandosi le mani svolgendo la propria professione. Dalla statunitense Jessica Olin un decalogo tra il serio e il faceto col quale potranno identificarsi molto archivisti

In qualsiasi ambito professionale una buona formazione è un requisito fondamentale per svolgere al meglio il proprio lavoro. Ciò detto si può studiare e prepararsi quanto si vuole, ma solo dopo il passaggio dalla teoria alla pratica si riescono a cogliere alcuni aspetti e sfumature dei quali non si fa minimo cenno nei manuali.

Anche nel mondo archivistico è ovviamente così, e a ribadirlo ci ha pensato di recente Jessica Olin, elencando le  “10 cose che non aveva imparato durante i propri studi da archivista”. Pur avendo studiato da archivista, la Olin ha in realtà ha lavorato per anni in ambito bibliotecario, prima di passare a occuparsi di sviluppo software. Nonostante ciò, la sua lista di lezioni apprese sul campo è piena di piccole e grandi “epifanie” che dovrebbero essere familiari alla gran parte degli archivisti in attività, a prescindere dalla nazionalità e dalle mansioni svolte.

La prima scherzosa verità appresa “in trincea” è che maneggiare grandi quantità di carta può essere rischioso. I tagli provocati dai fogli possono in effetti essere molto dolorosi e profondi, ma la stessa Oline ci tiene a precisare che sono comunque bazzecole rispetto al senso di solitudine che le è capitato di esperire in alcuni momenti.  “Essere soli fisicamente può pesare - scrive - ma forse ancora più pesante è il sentirsi come l’unica persona alla quale realmente importa quel che sta facendo”. Un rimedio alla sensazione di isolamento però esiste e consiste nella possibilità di partecipare alle comunità professionali, quali ad esempio quelle che si aggregano su Twitter, per condividere saperi, esperienze e, perché no, momenti no.

Non che agli archivisti manchino occasioni di condivisione “in presenza”: al contrario la Oline non si capacita della quantità di tempo impiegato a spiegarsi con i colleghi che si occupano di altro. Il perché è presto detto: spesso si tende a dare per scontati molti aspetti della propria professione, ma non è assolutamente automatico, come spiega in un punto successivo del decalogo, che gli altri capiscano perché gli archivisti facciano le cose in un certo modo. Parlarsi resta l’unico modo per renderlo chiaro, e aiuta anche a legittimare di più il lavoro archivistico agli occhi del “resto del mondo”. Non solo: farlo è fondamentale anche per socializzare le proprie manie. Nel suo caso ad esempio, il senso dell’ordine si è trasformato ben presto in una vera e propria ossessione. Per questo ha preso l'abitudine di lasciare decine e decine di bigliettini ai propri colleghi, implorandoli di non toccare per nessun motivo, in sua assenza, le pile di documenti sulle quali era di volta in volta al lavoro.

Sul campo la Oline ha anche capito che non tutti gli aspetti della professione possono essere apprezzati allo stesso modo. Lei ad esempio ha sviluppato una particolare idiosincrasia per la compilazione delle descrizioni. Ma soprattutto, a un livello più generale ha esperito sulla propria pelle che non necessariamente chi ha studiato da archivista è destinato a svolgere questo lavoro. “Questo mondo è piccolo e non ci sarà mai abbastanza lavoro per tutti gli aspiranti archivisti. Guardatevi intorno - è il suo consiglio - e vedrete che in molti campi si è alla ricerca di persone intelligenti che provano passione nell’organizzare cose”.

Passando agli aspetti più “filosofici”, la Oline ci tiene a precisare che “nessuno possiede la risposta adatta” per ogni problema. Certo, ci sono professionisti molto brillanti che fanno progredire la disciplina e fanno sfoggio del proprio talento in occasione di conferenze, pubblicazioni o sui social media. Ma per il resto dei “comuni archivisti”, la grandissima maggioranza, può bastare un minimo di accortezza e responsabilità per riuscire comunque a fare “molto meglio di tanti altri”.

Col passare degli anni l’archivista statunitense ha anche realizzato che, per quanto bello e importante, il lavoro non può coincidere con la vita: “alcune persone sembrano vivere per il proprio lavoro, in ufficio e altrove, e se questo funziona per loro è una gran cosa. Allo stesso tempo però, non mi sento una professionista di seconda fascia per il solo fatto di avere tracciato una netta linea tra lavoro e vita privata”. Last but not least, la Oline descrive quel particolare “Momento”, con la M maiuscola, nel quale ci si rende conto di quanto possa essere bello e importante il lavoro dell’archivista:

Ho parlato a molti archivisti del “Momento”: la prima volta che realizzi, in qualità di archivista, di essere alle prese con qualcosa di magico.

Il mio “Momento” è arrivato mentre lavoravo su un libro scritto da Fred Urquhart, lo zoologo canadese che assieme alla moglie e ad alcune guide locali messicane scopri dove migrano in inverno le farfalle monarca. Non si tratta del contenuto archivistico più eccitante che mi sia capitato di maneggiare, ma quel libro mi trasmise un grande effetto di risonanza, perché raccontava la storia di una persona appassionata di insetti e scienze naturali, rapita dalla storia delle farfalle monarca in migrazione verso il Messico. Tenendo tra le mani quel documento mi sono sentita connessa a quella coppia di scienziati, alla scoperta scientifica, a un mondo che esisteva oltre i confini del mio archivio.

È quello il “Momento” a cui faccio ritorno quando sono giù per la mancanza di fondi o perché le cose vengono gestite male. Mi apparterrà per sempre. L’ho fatto mio, e tale è rimasto anche quando mi sono allontanata dalla pratica archivistica tradizionale: mi permette di ricordare sempre che il mio lavoro è destinato a durare nel tempo.

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ultima modifica 2018-06-19T19:47:00+02:00
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