Cantos Cautivos, on line i canti dei prigionieri di Pinochet
Della sanguinosa dittatura di Augusto Pinochet in Cile molto si è scritto e documentato, anche grazie al contributo di numerose associazioni attive in ambito archivistico. Di natura assolutamente inedita e particolare è però il progetto Cantos Cautivos, in italiano Canzoni in Cattività, promosso su iniziativa di Kata Chornik, figlia di due oppositori del regime che per lungo tempo furono incarcerati e poi costretti all’esilio. Il progetto ha portato alla creazione di un archivio digitale contenente tracce audio, testimonianze e altri tipi di documenti sulle canzoni e altre iniziative musicali realizzate dai detenuti, come spontanea risposta alle violenze e alle privazioni subite.
Un articolo del Guardian spiega che i genitori di Kata Chronik furono imprigionati presso la famigerata Discoteca, centro di detenzione così ribattezzato dai servizi segreti di Pinochet perché i prigionieri venivano costretti ad ascoltare musica ad altissimo volume a qualsiasi ora del giorno e della notte. Una volta liberati, i genitori di Kata abbandonarono il Paese, trasferendosi prima in Venezuela e successivamente in Francia, per poi fare ritorno in Cile alla fine della dittatura. Kata trascorse la sua infanzia in questi Paesi e una volta rientrata in Cile cominciò a studiare violino e musicologia, attività che proseguì negli anni successivi, una volta trasferitasi in Inghilterra.
Proprio in Inghilterra, mentre completava il proprio percorso formativo presso la Royal Academy of Music, Kata ha gettato i primi semi del progetto di ricerca. Tutto ha avuto inizio con un vero e proprio percorso a ritroso lungo il proprio albero genealogico: “i miei antenati paterni - spiega al Guardian - erano ebrei scampati ai pogrom dei primi anni del 1900. Mia nonna suonava il violino in un’orchestra composta da sole donne: la Orquesta de Las Señoritas”. Prendendo ispirazione dalla sua storia, la ricercatrice ha indagato anche su quella di Alma Rosé, nipote di Gustav Mahler, violinista e direttrice di un’orchestra ad Auschwitz-Birkenau, dove perse la vita. Da lì, memore dei racconti dei propri genitori, Kata ha realizzato uno studio comparativo tra le attività musicali organizzate nei lager nazisti e quelle che ebbero luogo, decenni dopo, nei campi cileni.
Inizialmente i suoi studi si concentrano proprio sulla “Discoteca”: “ero una bambina quando venni a sapere che i miei genitori vi erano stati imprigionati. Ho ricordi molto vividi dei loro incontri con altri ex prigionieri rinchiusi nello stesso campo, anche se i miei genitori cercarono di proteggermi, evitando di rivelarmi tutti i dettagli. Per questo, quando contro la loro volontà visitai per la prima volta la ‘Discoteca’, ebbi come una rivelazione. Da musicista ho subito percepito delle vibrazioni particolari: il fatto che questo posto si chiamasse proprio in questo modo mi ha messo di fronte ad un ampio ventaglio di domande. Per anni le ho tenute a bada, poi però ho cominciato a studiare”.
Il risultato è Cantos Cautivos. Kata ha creato il database digitale dopo essersi trasferita presso l’Università di Manchester, avvalendosi della collaborazione del Museo Cileno della Memoria e dei Diritti Umani. Circa un terzo delle canzoni alle quali si è riusciti a risalire grazie al suo impegno sono state scritte totalmente o in parte da detenuti. Alcuni divennero musicisti o cantautori proprio durante la prigionia, e secondo la ricercatrice l’originalità di queste canzoni è tra gli elementi di maggior valore dell’archivio. Uno dei brani riportati alla luce è Evangelio según San Lucas, scritto dal famoso cantautore Angel Parra, sopravvissuto al duro campo di Chacabuco. La canzone fu suonata anche grazie al contributo di Marcelo Concha Bascuñán, anch’egli detenuto a Cahcabuco e scomparso nel 1976 senza essere mai più ritrovato. “Quando la sua famiglia ha ascoltato il nastro - racconta la Chornik - mi ha detto che si è trattato della cosa che più di tutte gli ha dato la sensazione che Marcelo fosse ancora vivo”. Tra le altre canzoni cui fa cenno il Guardian figurano El Suertúo, ironico ritratto della condizioni di vita nei campi, e i brani di Sergio Vesely, più volte coinvolto nell’organizzazione di spettacoli per le famiglie in visita ai prigionieri.
“Non ero interessata tanto alla brutalità della dittatura - spiega la Chornik - quanto al modo in cui chi ne fu vittima fu capace di reagire, cantando, suonando o ascoltando musica. Si trattava di una attività culturale, ma al tempo stesso con una valenza sociale. Molte testimonianze riguardano persone che cantavano per detenuti imprigionati in altre celle e sezioni: uomini rivolgevano le proprie canzoni alle donne e viceversa, a volte stabilendo dei veri e propri dialoghi a distanza”. Beatriz Bałaszew Contreras, sopravvissuta al campo di Tres Álamos, ha raccontato a riguardo: “negli anni successivi ho incontrato persone che vivevano a un isolato di distanza dalla prigione; mi hanno detto che riuscivano a sentirci fin laggiù”.
Ma cosa scatta per reagire alle violenze cantando e suonando? “La musica è l’arte più emozionale in assoluto - risponde la ricercatrice - si tratta di una risposta emotiva. Per cantare non hai bisogno di strumenti o oggetti. Cantare è umano, e farlo in un posto disumano è una affermazione della tua umanità. Il livello di stress e incertezza di queste persone era estremo, sicuramente queste attività permettevano di tenerlo a bada. Si cantava da soli, in gruppo o nell’ambito di una comunità, e probabilmente era proprio questa ultima dimensione la più importante”. Anche per questi motivi, non sempre nei campi si cantavano o suonavano brani dal significato politico. Spesso si trattava di canzoni d’amore, o riguardanti i propri luoghi e la natura “Si cantava di tutto ciò che andava di moda in quel periodo - conclude la Chornik - magari può sembrare una cosa irrazionale, ma in fondo perché avrebbe dovuto essere diversamente?”.