Conservazione digitale, un futuro senza passato?
Nel primo dei due articoli, intitolato History Flushed, l’attenzione è posta sul paradosso che caratterizza i nostri giorni: da un lato potenzialità tecnologiche tali da garantire la preservazione nel tempo di tutta la produzione culturale contemporanea, dall’altro una serie di elementi e fattori d’attrito che impediscono la concretizzazione dello scenario.
Il primo riguarda l’obsolescenza dell’hardware e, a detta degli autori dell’articolo, oltre a essere l’aspetto più evidente è anche quello più facilmente superabile:
“Per gli archivisti l’ostacolo più lampante è caratterizzato dall’hardware – si legge nel testo – ma si tratta in effetti di quello meno impegnativo. Per contrastare l’obsolescenza, molti archivi sostituiscono le proprie dotazioni informatiche ogni 3- 5 anni, e l’operazione a ben vedere è molto meno costosa di quanto si possa pensare: gli hard disk sono economici e affidabili e il rischio di una loro rottura può essere facilmente superato copiando i contenuti su più supporti e in più luoghi”.
Le cose tendono invece a complicarsi abbastanza con i software:
“Il modo in cui i software e i formati cambiano può creare ostacoli maggiori – prosegue il testo - ‘molti contenuti digitali possono essere letti solo con i software usati per crearli’, spiega il pioniere di Internet Vint Cerf, lasciando intendere che se un programma originale scompare, rischia di cadere nell’oblio anche tutto il materiale scritto e realizzato utilizzandolo”.
Nell’articolo si evidenzia anche come questo tipo di problemi sia già da tempo arginato e nella maggior parte dei casi superato ricorrendo agli emulatori hardware, che girano in pratica sulle nuove macchine comportandosi di fatto come se funzionassero su modelli e strumenti vecchi e ormai fuori produzione. Se perciò anche in questo caso ci si trova di fronte a problemi sostanzialmente superabili, è quando entrano in gioco le regole e le limitazioni all’accesso dei contenuti che le cose si complicano.
“La legge impone alle biblioteche di chiedere permessi prima di archiviare un sito – si legge in proposito – e le regole cui attenersi possono essere ben più complesse quando lo scopo è conservare software, materiali musicali o libri. Spesso infatti si tratta di prodotti dotati di misure anti-copia, pensate per prevenire i fenomeni di pirateria, e gli archivisti che volessero aggirarle per i propri scopi di conservazione rischiano di infrangere la legge”.
Come se non bastasse, gli autori della riflessione evidenziano come la tendenza alla "recintazione" dei beni digitali sia in evidente crescita con il passaggio dalla prima e pionieristica Internet all’attuale era delle app:
“L’Internet originaria fu costruita come un ambiente aperto nel quale la copia dei contenuti era semplice. La sua evoluzione mobile, con la crescita di popolarità delle apps, è profondamente diversa. In questo modo, più le società si impegnano per proteggere i propri beni digitali, più si corre il rischio che prodotti oggi estremamente popolari, come ad esempio Angry Birds o Instagram, non possano essere mai conservati”.
Ciononostante, prosegue e conclude l’articolo, sono già diversi i tentativi e le iniziative volti a preservare l’immensa quantità di dati e prodotti culturali frutto dell’era digitale. Da diversi anni sono impegnate su questo versante molte biblioteche nazionali, a cominciare dalla Library of Congress americana, anche se è evidente che la copia e la conservazione di materiali protetti dai diritti d’autore è estremamente problematica. E se è vero che a questa difficoltà rispondono in parte iniziative dal basso, specie non profit, come l’Internet Archive (160 i miliardi di pagine web già collezionati dal progetto) o il The Old School Emulation Centre, è anche vero, fa notare l’Economist, che lo fanno operando ai margini della legge e senza quelle pretese di catalogazione e conservazione universalistica che caratterizzano di fatto il solo operato delle istituzioni pubbliche, a cominciare appunto dagli archivi e dalle biblioteche.
“A fronte di una grande proliferazione degli archivi – si chiude perciò la riflessione – ad oggi la conservazione digitale è al più rattoppata. E fino a quando la legge non andrà di passo con la tecnologia, la storia digitale sarà scritta a spizzichi e bocconi piuttosto che come quell’immenso fiume di dati che sembrava essere promesso dall’avvento dell’era digitale”.
Leggi l’articolo integrale sull’Economist
Partendo dalle premesse e soprattutto dalle conclusioni del primo articolo, la seconda riflessione pubblicata sull’Economist, intitolata Bit Rot, analizza più da vicino i problemi, specie di natura legale, coi quali si scontrano gli archivi e le biblioteche nei propri tentativi di conservare la memoria digitale del presente. Il nodo centrale sono anche in questo caso il copyright e tutte le altre forme di protezione dei beni digitali, misure spesso ben più restrittive rispetto a quelle pensate per i prodotti culturali “tradizionali” come i libri cartacei.
Leggendo il testo, si scopre ad esempio che dal 2010 il Copyright Office statunitense ha esentato i produttori di beni esclusivamente digitali dall’obbligo di deposito di una loro copia presso la Library of Congress, a meno che non ci siano precise richieste in materia. Di conseguenza, se le biblioteche hanno il diritto di ottenere una copia di ogni libro o pubblicazione stampata, non hanno di fatto alcun mandato analogo per conservare software o applicazioni smartphone, prodotti in mancanza dei quali molti dati elettronici restano di fatto criptati e illeggibili.
All’orizzonte quindi pare delinearsi una vera e propria battaglia tra le istituzioni pubbliche deputate alla conservazione dei patrimoni culturali e i produttori dei beni digitali, ed è proprio su questo scenario estremamente complesso che si focalizza la conclusione dell’articolo, lasciando intendere chiaramente da che parte si schierano gli autori:
“I legislatori stanno valutando il problema. A maggio il Copyright Office statunitense organizzerà delle consultazioni pubbliche per discutere di deroghe all’elusione dei diritti digitali (DRM). Nel Regno Unito il governo vuole obbligare gli editori, compresi i produttori di software, a fornire una copia delle versioni definitive dei propri prodotti alla British Library entro un mese dalla loro pubblicazione. Questa legge permetterà alle biblioteche di conservare pagine web e altri materiali finora protetti da barriere come i paywall o altri sistemi di accesso esclusivo, e l’unica eccezione in tal senso riguarda i social network e le piattaforme on line che distribuiscono video o musica.
Gli editori, dal canto loro, evidenziano i costi che dovranno sopportare con l’entrata in vigore di queste misure nel momento in cui stanno lottando strenuamente per rimanere a galla. Temono che il libero accesso ai beni bibliotecari possa mettere in crisi le vendite commerciali e che la fornitura delle copie dei propri prodotti possa incoraggiare la pirateria.
Queste recriminazioni appaiono un po’ esagerate. Le biblioteche non forniranno questi prodotti a chiunque, ma solo ai loro visitatori. Non solo: la legge in via di definizione nel Regno Unito permetterà agli editori di non rendere pubblici i propri prodotti per 3 anni, concedendo loro un diritto quasi mai garantito per i prodotti cartacei. Per secoli le biblioteche hanno garantito l’accesso anche ai libri e alle pubblicazioni più costose, e sarebbe bene preservare questo principio anche nell’era digitale.
La posta in gioco è alta. Errori commessi trent’anni fa hanno già impedito agli storici di accedere a gran parte di quanto prodotto nei primi anni dell’era digitale. Senza un mandato ampio per le biblioteche, che dia loro il diritto sia di collezionare i beni digitali, sia di disporne degli strumenti per leggerli, gli storici di domani potrebbero non riuscire a interpretare i nostri giorni. Addirittura, rischierebbero di non rendersi neanche conto di cosa sarà andato perduto”.