Dagli archivi digitali alle “macchine del tempo”: progressi della scienza o spettacolarizzazione mediatica?
Le tecnologie digitali possono arricchire il lavoro di analisi e approfondimento sui patrimoni documentali e culturali, oppure si limitano a velocizzarlo e renderlo più efficiente, senza apportare però nessun valore aggiunto in termini di produzione di nuovi saperi? Il dibattito che scaturisce dai vari modi di rispondere a questa domanda prosegue da anni, a livello internazionale e nel più ristretto contesto italiano. Proprio in questo ambito, è tornato di stretta attualità a seguito della rinnovata attenzione mediatica su un importante progetto in dirittura d’arrivo.
Il progetto in questione è stato ribattezzato Venice Time Machine e già in passato abbiamo avuto modo di parlarne. Tutto è partito anni fa, a margine delle visita di Frédéric Kaplan, docente di umanesimo digitale al Politecnico di Losanna, nell’importante complesso dell’Archivio di Santa Maria Gloriosa dei Frari: 80 km di documenti su oltre mille anni di storia della città, in ottimo stato di conservazione e perfettamente classificati. Migliaia di fonti su vari aspetti della vita economica, sociale e culturale della città: scambi commerciali, vicende giudiziarie, negoziazioni, matrimoni e via discorrendo. “Mi sono sembrati - ha dichiarato di recente Kaplan - un’occasione preziosa per estrarre con gli strumenti dell’informatica nuove forme di conoscenza storica. Venezia è la città ideale: per la grande mole di commerci, scrupolosamente registrati, e l’ottima organizzazione amministrativa, che ci ha tramandato dati su abitanti, botteghe, edifici, vie e canali”.
Partendo da questa intuizione, un team di studiosi dell’ateneo svizzero, con la collaborazione dell’Università Cà Foscari e la sede locale dell'Archivio di Stato, ha dato forma e sostanza a un ambizioso progetto che, stando agli ultimi annunci, da ottobre dovrebbe concretizzarsi in un potente e raffinato motore di ricerca a disposizione di chiunque interessato. Dopo avere digitalizzato oltre 200.000 manoscritti e 350.000 tra dipinti e fotografie custoditi dalla Fondazione Giorgio Cini (e con l’obiettivo di arrivare entro il 2019 al milione di fonti scannerizzate), i promotori di Venice Time Machine hanno fatto in modo che i testi fossero leggibili dai motori di ricerca e quindi, servendosi di algoritmi di apprendimento automatico, hanno cominciato a mettere in relazione tra loro i manoscritti, le immagini e gli altri documenti che, da diverse angolazioni, fanno riferimento a singole persone, luoghi o accadimenti.
Risultato - si legge nell’articolo - un enorme grafo con tutte le connessioni tra uomini, luoghi e cose. «Ad esempio per un pittore posso localizzare sulla mappa la sua bottega. E, come in un “Facebook dell’antichità”, scoprire chi erano i suoi vicini e dove vivevano i suoi parenti, sapere cosa è successo nella sua via – intrighi compresi - e tutto ciò che gli storici sono costretti a ignorare per limiti di tempo e risorse. Gli automatismi e la velocità dei big data superano questi vincoli» sottolinea Kaplan. «E così possiamo conoscere le vicende dei veneziani comuni: studiare la Storia “dal basso”, invece di occuparci soltanto dei condottieri, dei sovrani e dei potenti».
Anticipazioni e immagini dal forte potere evocativo, non a caso formulate dalla persona che per prima ha avuto questa intuizione e poi si è spesa in prima persona per trasformarla in realtà. Ma non tutti hanno reagito in maniera entusiastica a questo tipo di descrizioni, e c’è anche ha approfittato di queste parole per mettere in guardia dal rischio di una eccessiva e immotivata spettacolarizzazione digitale, a scapito del ben più profondo e oscuro lavoro di analisi e approfondimento archivistici. Una aperta posizione in tal senso è stata dallo storico Lorenzo Tomasin, autore di una riflessione apparsa prima sul supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore, con il titolo "Una macchina del tempo per niente Serenissima", e successivamente sull'Osservatore Romano, col titolo "Storia o videogame?".
Precisando che negli anni scorsi ha collaborato in prima persona al progetto, Tomasin esprime tutti i suoi dubbi sul fatto che grazie alla sua realizzazione si potranno portare alla luce aspetti e conoscenze finora rimasti sepolti tra le migliaia di manoscritti e altre fonti storiche. “La digitalizzazione di documenti - scrive a riguardo - è un’opera utilissima che merita il plauso di chi studia la storia: perché consente di conservarne copia e di consultarli da lontano. Consente, in alcuni casi, anche di “leggere ” (ma non nel senso che diamo noi umani a questo termine cioè elaborare e comprendere informazioni) il loro contenuto, di metterli in rapporto tra loro. Così come i computer permettono, certo, di immagazzinare un gran numero di dati precedentemente letti, cioè capiti, da cervelli ben umani, e di gestirli con maggiore facilità.
Ma nessun vero dato storico nuovo - argomenta Tomasin - sarà mai prodotto da un computer, che al più potrà immagazzinarne come uno schedario particolarmente capiente. Magari travestendoli — e qui sta un punto cruciale — nelle forme luccicanti e attrattive rese possibili da un’abile computer grafica, che con la seria storiografia ha ben poco che fare.
È la rutilante cornice, insomma:non il quadro. Certo, produrre oneste e accurate digitalizzazioni è utile agli storici, ma non disseta i tecnologi (e i cacciatori di fondi europei), perché è quello che si fa già da anni, coi pochi soldi a disposizione per chi svolge ricerca di base, insomma vera. Né disseta chi pensa che per essere reso interessante il passato debba per forza essere tradotto nelle forme attualissime dei social network (...)
È certo che la tecnologia può aiutare gli studi, anche quelli storici, a gestire grandi quantità di dati. Ma da qui alla macchina del tempo di sapore cinematografico presentata come prodotto scientifico; da qui all’idea che come per incanto il contenuto di documenti sui quali gli studiosi devono chinarsi per decifrarli e interpretarli uno ad uno, risolvendo problemi di lettura e di comprensione continui e spesso complessi; da qui, insomma, all’idea che un computer possa fare altro che visualizzare in modo diverso dal solito ciò che un istruito cervello umano ha già letto — o magari inventato, se ciò possa servire a spettacolarizzare la ricerca — passa un equivoco di cui è forse bene essere consapevoli.