Dalle storie individuali ai racconti collettivi: il personal digital archiving ai tempi di Facebook
Noah Lenstra è un ricercatore dell’Università dell’Illinois e, spiega il blog The Signal, negli scorsi anni ha percorso in lungo e in largo il proprio Stato per diffondere i principi del personal digital archiving. Destinatarie delle sue lezioni, le tante persone interessate alla realizzazione di un sito web sulla storia afro-americana nell’area metropolitana di Champaign-Urbana, ma a corto di nozioni per la digitalizzazione e la conservazione dei propri cimeli di famiglia. La particolarità di questo tour è che Lenstra non si è limitato a fornire conoscenze, ma si è anche posto in ascolto, o meglio in osservazione, di coloro che hanno preso parte agli incontri. E i risultati sono stati davvero sorprendenti, perché pur essendo il più delle volte ignari di quelli che sono i principi base del personal digital archiving così come inteso a livello istituzionale ed accademico, molti cittadini hanno mostrato di avere escogitato soluzioni del tutto personali per preservare le proprie memorie. Cuore pulsante di questi percorsi, Facebook e gli altri social media, molto utilizzati sia per caricare on line e condividere archivi personali e di famiglia, sia, a partire da questi, per la costruzione di vere e proprie memorie condivise in grado di restituire la storia a più voci delle comunità locali.
A The Signal Lenstra afferma di esseri interrogato sul perché di questi utilizzi apparentemente insoliti, e di avere trovato un paio di risposte alla domanda. Per prima cosa, spiega, i social media sono canali molto semplici da utilizzare, e anche per questo riscuotono così tanto interesse. E poi c’è il tema chiave della condivisione: “i social media permettono di stare in contatto con le persone che si conoscono – si legge nell’articolo - ma anche di stabilire relazioni col proprio passato e con gli altri che lo hanno condiviso”.
“Le persone – prosegue Lenstra – erano interessate a piattaforme che permettessero di condividere con altri i propri archivi personali. Volevano usarle per farli divenire qualcosa di più che semplici contenitori individuali (..) volevano creare relazioni tra i contenuti che custodiscono nei propri archivi e quelli che possono essere conservate in altri archivi, tra le storie di un individuo, e quelle di altre persone”.
Nell’articolo si forniscono alcuni esempi a riguardo: in tutti il tema chiave è che ciò che parte su Facebook come un racconto personale o al massimo familiare, diventa ben presto qualcosa di più allargato, di appartenente al luogo e alla comunità in cui quella famiglia viveva. Lenstra fa notare anche come questo tipo di pratiche abbia rafforzato l’idea di Facebook come repository per la conservazione digitale delle propri memorie.
“Molte persone mi hanno detto che avevano perso grandi quantità di foto a causa della rottura dei propri computer, ma di averle recuperate perché le avevano pubblicate su Facebook. Non sto dicendo che si tratti della soluzione giusta, però pragmaticamente penso che per alcuni può trattarsi di una opzione valida, molto più di quanto non sia pensare che tutti eseguano il backup dei propri dati ogni 5 anni. Dubito che siano in molti a farlo”.
Rimanendo in tema di socialità e condivisione, nell’articolo si dedica molta attenzione anche al ruolo delle biblioteche, luoghi centrali nel tour di Lenstra. Il ricercatore afferma che queste istituzioni stanno assumendo un ruolo sempre più importante per chi è appassionato di storia locale, e che implicitamente sia gli stessi bibliotecari, sia i visitatori, le stanno identificando come i luoghi di riferimento ideali per la crescita della memoria digitale. Un aneddoto è molto eloquente: in una biblioteca di Champaign Urbana, due scanner erano a disposizione dei visitatori interessati a copiare i libri e gli altri testi custoditi nei locali. Col tempo però, sempre più persone hanno cominciato a usarli per digitalizzare i propri ricordi personali. Un cambiamento non pianificato, ma talmente significativo – spiega Lenstra – che alla fine la biblioteca ha realizzato delle pubblicità per incentivare questo tipo di utilizzo degli scanner.
È anche partendo da storie di questo genere che il ricercatore sottolinea la necessità di puntare con forza sulle biblioteche come luoghi in cui promuovere un’ibridazione tra la “cultura alta” del personal digital archiving, e le pratiche dal basso di preservazione delle proprie memorie. Ed è come se dalle sue riflessioni venisse fuori una sorta di idea delle biblioteche come social media fatti di mattoni, arredi e ovviamente persone in carne e ossa. Social media nei quali – sostiene Lenstra – occorre domandarsi in che modo si possono aiutare gli individui, le famiglie e le comunità a custodire e condividere il proprio passato. Un’idea tanto evocativa quanto ancora tutta da costruire, sembra suggerire la fine dell’articolo. Ma il presupposto di partenza per cominciare a farlo, afferma il ricercatore, è che se da un lato è difficile immaginare di convertire intere popolazioni alla disciplina del digital personal archiving, e se dall’altro i social media, per quanto utili, non possono essere l’unica risposta alla necessità di custodire il nostro passato, ci sono tante soluzioni intermedie su cui si potrebbe contare, pensando alle biblioteche come duplice luogo di incontro: tra istituzioni e comunità, e tra reale e virtuale.