Emozioni e storia, una doppia firma sulla sopravvivenza del corsivo
Come già notiziato sul sito di ParER, da tempo in Nord America è in corso una discussione tra chi sostiene che l’insegnamento della “bella scrittura” rappresenti ormai uno spreco di tempo ed energie nell’era della videoscrittura digitale, e chi invece vorrebbe preservare la disciplina, partendo dal presupposto che l’apprendimento ha effetti positivi sul processo di crescita dei più giovani. Al dibattito si sono aggiunte di recente le voci di Bobby George and June George, co-fondatori di un associazione montessoriana che ha sede nel South Dakota, con un commento per il sito Qartz che espone un punto di vista alternativo rispetto a quelli comunemente usati in difesa della pratica.
Nel loro intervento, a dire il vero, si riconosce apertamente che è in atto un avanzato processo di declino fisiologico del corsivo. Non è certo un caso, ammettono, se 45 Stati americani hanno ufficialmente scelto di escluderlo dall’elenco delle materia di insegnamento considerate indispensabili per la formazione degli studenti. E altrettanto forte e chiaro parla il dato relativo all’uso del corsivo da parte dei ragazzi impegnati nelle prove scritte per l’ammissione ai college, introdotte per la prima volta nel 2006: su un milione e mezzo di partecipanti, appena il 15% ha preferito il corsivo allo stampatello.
Partendo da queste evidenze, nel testo si paragona la pratica ad un castello di sabbia sempre più lambito e minacciato dalle onde del mare. Il mare è ovviamente quello della rivoluzione digitale ormai compiuta, e forse non ha proprio senso, sostengono i due autori, continuare a far leva sugli argomenti tradizionalmente agitati in difesa del corsivo, per provare ad arginarlo. Inutile insistere sul fatto che il suo utilizzo permette di affinare l’intelligenza, ed è garanzia di migliori performance scolastiche e accademiche. Secondo i due esperti di insegnamento si tratta di argomentazioni deboli e comunque non dimostrabili in assenza di evidenze scientifiche. Molto più chiaro – almeno stando al loro giudizio – dovrebbe essere invece che con il corsivo rischiano di scomparire informazioni talvolta fondamentali sulla natura e gli stati d’animo di chi scrive, specie se l’atto ha a che fare con occasioni ed eventi di interesse storico.
A tale proposito, nel testo si fa riferimento a un aneddoto: il primo gennaio del 1863, il Presidente Abramo Lincoln è in procinto di firmare il “Proclama di Emancipazione”, documento col quale si sancisce la liberazione degli schiavi negli Stati confederati d’America. Come però si sottolinea in un Ted talk che i due autori definiscono “eccellente”, al momento della firma Lincoln ha un attimo di esitazione. Ha stretto troppe mani nei momenti precedenti alla cerimonia, anche per festeggiare il capodanno, e adesso avverte un certo torpore e agitazione alla mano. Da qui la pausa, cui seguono le seguenti parole: “se mai la mia anima dovesse finire in un documento, è con la firma di questo documento che accade. Ma se dovessi firmare con una mano scossa e agitata, in futuro si dirà che ho esitato al momento di farlo”. Quindi il Presidente riacquisita la calma e appone una firma chiara e marcata sull’atto.
“C’è un motivo che spinge Lincoln a prendersi una pausa prima di firmare – scrivono Bobby e June George in chiusura del loro commento – e non ha a che fare semplicemente con l’atto della scrittura in sé. Riguarda piuttosto quello che si nasconde dietro la firma, la saldezza della sua mano, e la decisione che le generazioni dovranno riconoscere in quel singolo segno. Giunto a quel punto, Lincoln intuisce con chiarezza che del suo carattere parleranno non solo le parole e i fatti, ma anche il tratto lasciato dalla penna. In modo estremamente eloquente, ecco in controluce la vera sfida che accompagna il dibattito tra corsivo e stampatello, o meglio ancora tra scrittura a mano e scrittura meccanica: che tipo di tratto vogliamo lasciare in eredità a chi verrà dopo di noi?”.