Gli Archivi per la storia e nella storia: dieci riflessioni a margine di un evento
La conferenza internazionale “Transforming Information: Record Keeping in the Early Modern World” si è svolta su iniziativa della Cambridge University presso la Britsh Academy, per provare a favorire un confronto tra accademici europei e statunitensi sull’età che ha visto la nascita e l’affermazione delle istituzioni archivistiche, e di come e quanto esse abbiano contribuito in maniera fondamentale allo sviluppo e alla trasformazione delle discipline storiche. Il periodo al centro dell’attenzione è stato quello corso tra il 1500 e il 1800, vale a dire la prima parte della cosiddetta età moderna, epoca nella quale si è assistito ad una vera e propria esplosione della letteratura, delle arti e del progresso tecnologico, così come alla graduale ascesa della nuova classe borghese, nonché alla parallela e intrinsecamente collegata (almeno agli occhi degli organizzatori) crescita di importanza degli archivi, intesi come luoghi nei quali tenere traccia e memoria di questi fenomeni. Nella progettazione dell’evento è stata centrale l’idea degli archivi come fautori attivi di storia, ovvero istituzioni nelle quali le scelte di cosa e come doveva essere conservato avevano a che fare anche con motivazioni di tipo politico, economico, sociale e culturale, con conseguenze di estrema importanza sulla storia ufficiale che è poi stata tramandata e narrata fino ai giorni nostri.
Considerando che con l’avvento del digitale si assiste a un rinnovato fermento nel campo delle arti e della cultura, ma anche a profondi riassetti e ridisegni in campo istituzionale, politico ed economico, non sono mancate infine riflessioni sulle analogie tra le due epoche e sulle trasformazioni che stanno interessando gli stessi archivi nel momento in cui l’accesso e la conservazione vengono investiti dalla rivoluzione informatica. “Pur in presenza di notevoli differenze tra i due periodi storici – si leggeva a riguardo in un testo che presentava la conferenza – ci sono evidenti paralleli tra quello di intensa trasformazione che ha portato alla nascita degli archivi, e la rivoluzione informatica che sta prendendo piede oggi come diretta conseguenza della digitalizzazione”.
Tracce e spunti preziosi a riguardo, ma anche relativi ad altri argomenti oggetto di confronto in occasione della due giorni, sono stati raccolti e fissati nello Storify dell’evento. Sempre on line inoltre, pochi giorni prima del suo svolgimento, è stata pubblicata una interessante intervista multipla a dieci esperti ed accademici che vi hanno preso parte. Leggendola, è possibile farsi un’idea delle loro personali riflessioni su alcuni tra i quesiti e temi centrali della conferenza, così come degli assunti di partenza che hanno portato alla sua organizzazione.
A tale proposito sono ad esempio estremamente eloquenti le parole di Kate Peters, tra i tre Professori dell’Università di Cambridge che hanno contribuito in prima persona alla progettazione dell’evento: “Il record keeping – spiega in risposta a una domanda sul perché alcuni atti e documenti storici sono stati conservati e altri sono invece stati lasciati nell’oblio – era una attività profondamente politica: le decisioni su cosa preservare e cosa distruggere possono dirci moltissimo sul modo in cui sono cambiati i concetti di legittimità e partecipazione politica”. Concetto ribadito da Alexandra Walsham, anch’essa tra i promotori dell’iniziativa, che parla della “creazione, organizzazione, conservazione e distruzione degli archivi come attività mai imparziali o neutrali, ma sempre specchio delle ansie e priorità in seno alle società dell’epoca”; e con forza ancora maggiore dalla concisa e brutale sintesi di Filippo de Vivo (University of London), secondo il quale “le collezioni archivistiche non sono mai neutrali ma sempre dei veri e propri strumenti di guerra”. Non è insomma assolutamente un caso, fa notare Jesse Spohnholz (Washington State University), se il passato che ci viene oggi restituito dalla consultazione degli archivi parla quasi esclusivamente al maschile e di tematiche legate alle questioni politiche e religiose. Né ancora che la storia di re, principi, magistrati e clero appaia decisamente più rilevante e prestigiosa rispetto a quella di coloro che hanno osteggiato, apertamente combattuto, o semplicemente ignorato queste istituzioni.
Decisamente più oscura, ma tutt’altro che irrilevante, è invece la storia dei segretari e degli altri professionisti che hanno lavorato nei secoli all’interno degli archivi. Persone che hanno “giocato un ruolo cruciale nella costruzione della storia ufficiale”, fa notare Arnold Hunt (British Library). “Tecnici invisibili avvolti nell’ombra – prosegue articolando il concetto – la cui fondamentale opera di intermediazione può essere letta solo in controluce nelle note a margine dei documenti e delle lettere che hanno deciso di conservare, e che ora invece occorre assolutamente riportare al centro dell’attenzione”. Anche perché – sembra quasi suggerire idealmente in aggiunta Jennifer Bishop (Cambridge University) – quegli atti e documenti permettono spesso di risalire alla loro personalità: “non si tratta di fonti che si limitano a documentare con rigore e distacco evidenze storiche e ufficiali, ma anche di testi creativi che parlano delle preoccupazioni e delle abitudini degli impiegati che li hanno scritti”.
Quanto alla complessità dei cambiamenti cui si assiste con l’irruzione sulla scena di Internet, specie per quanto riguarda l’accesso ai documenti storici, si rimanda infine alla risposta integrale di Valerie Johnson dei National Archives:
“L’accesso agli archivi è una questione complessa. Agli albori della digitalizzazione, il pensiero più largamente diffuso è stato quello della “democratizzazione degli archivi”, ed è chiaro che se qualcosa viene digitalizzato e reso disponibile on line, si amplificano incredibilmente le possibilità di accesso per chi potrebbe vivere a centinaia o migliaia di kilometri di distanza da quella fonte. Ma cosa accade se a essere digitalizzato è un documento scritto in latino medievale? In quel caso, digitalizzarlo non equivale automaticamente a renderlo disponibile per una larga maggioranza di persone. Esse infatti non possono leggere il manoscritto, e anche se potessero gran parte di loro non potrebbe comprendere la lingua.
Questo per dire che alcune cose che si danno ormai per semplicemente acquisite non sempre lo sono. E se ad esempio la digitalizzazione rappresenta un fondamentale passo in avanti per collezioni standard come quelle relative ai censimenti, per altri materiali, la loro fornitura on line potrebbe causare un distacco non positivo dal loro contesto d’origine. Per quanto mi riguarda, la buona opera di catalogazione è estremamente importante quando offre agli altri la possibilità di scoprire i tesori che altrimenti potrebbero rimanere sepolti in un archivio. E l’accesso fisico all’archivio rimane fondamentale, perché la maggior parte delle persone prova ancora oggi un grande brivido quando si trova il documento storico originale tra le mani, e assapora la sensazione tattile (e talvolta olfattiva) - tuttora e mai in futuro ineguagliabile - che si accompagna a questa esperienza.
Ma si può accedere agli archivi solo se continuano ad esistere archivi cui accedere. Per questo, il modo migliore di facilitare l’accesso è esaltare il valore degli archivisti e il senso del loro operato".