I citizen archivist come paladini della conservazione digitale
Alla grande maggioranza degli appassionati di musica, e ancor più ovviamente a chi la ascolta occasionalmente e senza particolari interessi, il nome di Ian MacKaye non dirà nulla. Eppure nel suo piccolo si tratta di un vero e proprio monumento vivente, specie negli Stati Uniti, e in particolar modo nella capitale, dove prima con il gruppo Minor Threat, e successivamente con la formazione dei Fugazi, ha fondato una delle scene musicali più influenti nella storia recente del rock americano, quella del Washington DC hardcore punk. Scena che lo scorso 7 maggio è stata di colpo catapultata sotto i riflettori della Library of Congress, in occasione di una presentazione pubblica tenuta dallo stesso MacKaye per presentare le Fugazi Live Series, ovvero l’archivio musicale che raccoglie le registrazioni di circa 800 dei 1.000 concerti tenuti dalla band americana tra il 1986 e il 2003. Registrazioni che la Dischord, etichetta della band, ha cominciato a mettere on line a partire dal 2011, nell’ambito di un lavoro che il musicista ha descritto in un talk a quanto pare estremamente ricco di aneddoti e storie curiose. Primo tra tutti, l’ammissione da parte del musicista che la sua passione per il collezionismo e la raccolta di materiali, passione alla base della creazione dell’archivio on line, è molto probabilmente imputabile a una vera e propria tara genetica:
“Penso si tratti di una questione di sangue – si legge in un articolo di Spin – mia nonna tenne sotto pseudonimo una rubrica per una rivista femminile. Il titolo della rubrica era ‘Questo matrimonio può essere salvato?’ e si trattava sostanzialmente di uno spazio in cui due coniugi potevano affrontare i propri problemi di coppia con l’aiuto di un esperto. A un certo punto, quando entrarono in commercio le audiocassette, mia nonna cominciò a usarle per registrare le loro conversazioni. Non penso le usasse per ascoltarle, ma di sicuro tenne i nastri (…). Poi un giorno prese una decisione molto strana: perché registrare solo quelle discussioni? Era giunto il momento di registrare tutto. Così oggi mi ritrovo tutte queste cassette. In una, ad esempio, sbraita contro un tassista di Los Angelese che le ribatte: ‘sembra di sentire mio padre!’. E lei di rimando: ‘beh, tuo padre deve essere davvero deluso da te’ (…) anni dopo anche mia madre cominciò a registrare cassette mentre era in casa, ad esempio quando giocava a carte. C’era qualcosa riguardo a questa attività di documentazione davvero interessante. E ora sto lavorando per conservare in digitale tutti questi nastri”.
Tare genetiche a parte, per chi si occupa di conservazione digitale quello che davvero interessa di questa storia è stato messo a fuoco nei giorni successivi dall’esperto della Library of Congress Butch Lazorchak, con un post pubblicato sul blog The Signal. Il punto di partenza della sua riflessione è proprio lo iato descritto in apertura di questo articolo: MacKaye e la sua scena musicale sono sconosciuti ai più, eppure è indubbio che questo movimento ha influenzato significativamente la storia del rock americano. Un motivo più che valido, quindi, per ottenere la giusta attenzione degli storici e di chiunque si occupi di preservazione della memoria. Ma se le logiche prevalenti, specie quelle del mercato, possono garantire la sola sopravvivenza di ciò che in estrema sintesi si può definire mainstream, cosa occorre fare per evitare la perdita di storie culturali di nicchia, a volte troppo piccole per essere appetibili agli occhi di chi ha interessi commerciali? Molto probabilmente, suggerisce Lazorchak, occorre contare proprio su personaggi eccentrici e a loro modo borderline come MacKaye. O comunque più in generale sugli appassionati di collezionismo e conservazione personale, nell’articolo definiti “citizen archivist”. Con loro - questa la tesi di fondo dell’articolo - occorrerebbe stringere un patto sancito da un motto tanto antico quanto inscalfibile, quello secondo il quale l’unione fa la forza.
“Ci sono difficoltà relative al modo in cui la cultura popolare viene considerata di recente dalle istituzioni culturali – scrive l’esperto in proposito – ma in quel gap risiede un aspetto chiave per chi si occupa di conservazione digitale. C’è il rischio che materiali e contenuti di valore vadano persi nel lungo periodo se non si troveranno delle soluzioni, ed è per questo motivo che occorre sostenere l’idea di allearsi in modo creativo con i citizen archivist. Così facendo potremmo individuare i materiali che meritano di essere preservati fin dalla loro creazione, e potremmo assistere i citizen archivist affinché li custodiscano nel lungo termine.
Con un paper intitolato Digital Curation and the Citizen Archivist – prosegue Lazorchak – Richard Cox affrontava questi aspetti già nel 2009, sostenendo la necessità di stringere partnerhsip coi collezionisti privati per raccogliere e conservare materiali. Cox sosteneva anche la necessità di formare i privati ad un corretto modo di conservare, utilizzare e utilizzare le proprie memorie personali e familiari. In passato c’è sempre stata una tensione latente tra i collezionisti privati e quelli istituzionali, con questi ultimi – archivi, biblioteche, musei ecc. – a farla da padroni e vincitori. In futuro però, ci saranno meno certezze a riguardo, specialmente se si considerano le sfide che le istituzioni culturali si trovano ad affrontare nel momento in cui gran parte del nostro patrimonio culturale viene prodotto direttamente in digitale dalle singole persone. Ma la buona notizia comunque c’è, ed è che molti privati cittadini si occupano con passione dei propri archivi, esattamente come fanno le istituzioni. La Library of Congress ha creato una guida per il personal digital archiving e i National Archives conducono un programma per il coinvolgimento dei citiizen archivist, ma occorre ancora lavorare molto, sulla scia del pensiero di Cox, per aiutare le persone a prendersi cura delle proprie collezioni digitali, sia che riconoscano di essere dei citizen archivist, sia che rifiutino questa etichetta. MacKaye ad esempio non si considera tale, ma il lavoro che ha fatto negli ultimi 30 anni va oltre il semplice collezionismo personale, e ci offre spunti interessanti su nuovi modelli creativi da prendere in considerazione per archiviare e rendere disponibili on line dei materiali di interesse storico (…)
Il fatto che i citizen archivist vivano gli eventi in prima persona – si legge in un passaggio successivo – li rende più sensibili e impegnati affinché i materiali che riguardano quegli eventi siano accessibili e condivisi. Come ha detto MacKaye l’altra sera, ‘da qualche parte in strada in futuro, un ragazzino che mi somiglierà moltissimo vorrà saperne di più su cosa accadeva durante il nostro periodo. Avrà sete di sapere anche perché la maggior parte delle volte è l’industria dei media mainstream a stabilire cosa è accaduto in passato, e questo vale anche per la storia del rock’.
Che lo si voglia riconoscere o meno - conclude Lazorchak - siamo circondati da citizen archivist. La sfida per professionisti come noi diventa perciò quella di trovare modi creativi per sostenere e incanalare questa meravigliosa energia sprigionata in tutto il mondo, di modo che materiali e contenuti più disparati, ma comunque di incredibile valore, possano sopravvivere al loro tempo”.