I poli archivistici e le altre misure per evitare l’avvento della “Digital dark age”
L’approfondimento sulla cosiddetta digital dark age è stato pubblicato sulla edizione cartacea del Corriere delle Comunicazioni e ripreso parzialmente on line, con un articolo introduttivo di carattere generale, firmato da Luciana Maci, e una intervista a Stefano Allegrezza, ricercatore presso l’Università di Udine e docente al Master in formazione, gestione e conservazione degli archivi digitali in ambito pubblico e privato dell’Università di Macerata.
Nel primo articolo l’attenzione va ai tanti rischi di perdita dei dati digitali, siano essi nativi o in alternativa convertiti dall’analogico, che caratterizzano l’era dell’informatica e di Internet, e si fa riferimento alla sempre più frenetica obsolescenza dei supporti hardware e software come la causa principale di fenomeni di questo genere.
“Uno dei principali timori legati alla conservazione dei dati – si legge in un passaggio del testo – è che gli elementi raccolti in un data center possano essere spazzati via da eventi naturali come terremoti, inondazioni o altre devastazioni. Sarebbe la replica di quello che accadde alla Biblioteca d’Alessandria, considerata la più grande e ricca del mondo antico, che andò distrutta più volte tra il 48 a.C. e il 642 d.C. Ma, nel caso di catastrofi, la soluzione è piuttosto semplice: è sufficiente conservare i dati in diversi data center sparsi per il mondo, cosa che i maggiori enti impegnati nella conservazione digitale stanno già facendo.
Ci sono però rischi più stringenti: l’obsolescenza di hardware e software, quella dei supporti e dei formati elettronici. Per affrontare questi problemi gli scienziati hanno escogitato una serie di strategie, tra cui il refreshing e la migration. Al di là delle problematiche legate alla conservazione, ci si chiede chi e come si stia preoccupando, nel mondo, di analizzare, catalogare ed archiviare la mole di dati digitali in continua espansione”.
Partendo da questa introduzione, l’articolo prosegue citando le soluzioni e i progetti messi in campo nel mondo, ma anche in ambito nazionale, per contrastare i rischi di perdita dei dati e della memoria digitale. Si fa riferimento così all’Internet Archive e alla iniziativa Open Library, finalizzati rispettivamente alla creazione digitale di immensi archivi di pagine web e volumi non più protetti da copyright, e si arriva, rimanendo in ambito internazionale, alle esperienze della Library of Congress statunitense, che ha mappato e conserva in digitale circa 10.000 siti per la maggior parte di proprietà governativa, e i Web Archives britannici, impegnati in progetti analoghi riguardanti le risorse web, istituzionali ma non solo, dei Paesi del Regno Unito.
Infine, passando all’Italia, l’articolo fa riferimento tra le altre esperienze a quella di ParER, il Polo Archivisitico Regionale dell’Emilia-Romagna, che opera da anni per la conservazione del patrimonio documentale degli enti pubblici del territorio regionale. Altri progetti e strutture citate sono il Dax (Digital Archives Exchange), promosso in Toscana, il Polo Marche DigiP, il Polo di conservazione digitale dell’Archivio centrale dello Stato, attualmente in partenza, e l’operazione per la digitalizzazione di circa 80mila manoscritti, promossa dalla Biblioteca Vaticana.
Nell’intervista al professor Stefano Allegrezza si rimane in tema e si fa riferimento alle diverse strategie e metodologie concepite e messe in atto nel tempo per la salvaguardia dei patrimoni digitali. L’esperto fa riferimento alle prime iniziative di printing to paper, finalizzate alla stampa e alla conservazione su supporto cartaceo di documenti e contenuti “nativi digitali”, e cita successivamente la computer museum strategy, l’emulazione, il riversamento diretto o sostitutivo e l’archeologia digitale. Allegrezza afferma anche che la creazione dei poli di conservazione digitale è la strada più seguita al momento per far fronte ai rischi di perdita della memoria digitale da parte delle amministrazioni pubbliche e conclude sottolineando la nascita, per ora soprattutto nel panorama anglosassone, della nuova figura professionale del digital curator.