Il folk digitale e le problematiche della sua conservazione
Nell’ambito di una lunga intervista realizzata da Trevor Owens, Robert Glenn Howard illustra i principali concetti alla base delle sue teorie, le contestualizza nell’ambito del più ampio e articolato filone di studi e ricerche in materia di web partecipativo, e riflette con l’intervistatore, esperto di conservazione digitale, su quali potrebbero essere le migliori pratiche per provare a tramandare nel lungo periodo l’enorme quantità di materiali e contenuti prodotti e scambiati sui media digitali. Per quanto riguarda il concetto di folklore digitale, Howard spiega che il suo intento principale è quello di smentire il luogo comune che vorrebbe il termine folk associato a qualcosa di vecchio e superato. Al contrario, spiega, il folklore è sempre esistito e sempre esisterà, trattandosi di qualsiasi cosa (“lore” il termine in inglese) che le persone (“folk”) decidono di condividere. Più precisamente, articolando ulteriormente il concetto, spiega che il folklore può essere inteso come tutta “la conoscenza informale che viene condivisa tra le persone e permette loro di stabilire delle relazioni”.
Partendo da questo presupposto, l’accademico considera quasi naturale che gli studi contemporanei sul folklore possano e debbano applicarsi ai nuovi media digitali, perché è su questi, spiega, che le persone tendono a condividere conoscenze e saperi e a costruire significati e percorsi di senso a partire da essi. Nell’intervista si specifica anche che il suo campo di interessi è circoscritto all’ambito della produzione e dello scambio vernacolari, ovvero di tutto ciò che circola nei canali non istituzionali e che in qualche modo anima e caratterizza il nostro vissuto quotidiano on line. Glenn precisa però che per vernacolare si può anche intendere la reinterpretazione di contenuti “ufficiali” o “istituzionali”, come avviene ad esempio quando gli utenti di YouTube utilizzano un brano musicale o uno spezzone di un film per produrre e condividere nuovi contenuti, e aggiunge che a differenza di altri studiosi, Henry Jenkins su tutti, è convinto che queste pratiche di partecipazione e scambio informale non siano nate grazie ai media digitali, ma siano state piuttosto rivitalizzate dalla loro comparsa sulla scena. Abbiamo costruito reti vernacolari di comunicazione da sempre, è la sua teoria, e piuttosto la vera anomalia c’è stata a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, con l’esplosione dei mass media, fino al recente consolidamento dei media digitali. Nella seconda metà del secolo scorso, Glenn ritiene infatti che gran parte dell’umanità abbia delegato ai broadcaster il compito di raccontare storie, assumendo per la prima volta un atteggiamento passivo, prima di abbandonarlo nuovamente quando i media digitali hanno riportato in auge il concetto di partecipazione. Articolando ulteriormente il ragionamento, l’accademico dichiara perciò di preferire al concetto “cultura partecipativa”, spesso utilizzato da Jenkins, quello di “cultura del remix”, a sua volta proposto da Laurence Lessig, ovvero “l’idea che la partecipazione sui media riguardi spesso il fatto di prendere alcuni contenuti e rielaborarli assecondando le proprie inclinazioni”.
“Si vedono tonnellate di cose del genere su YouTube – prosegue l’esperto – e certamente questo è quanto moltissimi studiosi del folklore hanno analizzato per oltre 200 anni occupandosi di narrativa orale e musica folk: performance individuali a partire da storie o canzoni tradizionali, come ad esempio la tua personalissima versione di Cenerentola pensata appositamente per i tuoi figli. Oggi, ugualmente, tendiamo a suonare la nostra particolare versione di una canzone dei Beatles e a postarla poi su YouTube, ma si tratta sempre della stessa cosa: partecipare remixando! Insomma, stiamo tornando in un posto che avevamo già frequentato per lungo tempo, e magari ci sembra strano perché siamo cresciuti in un momento molto particolare della storia che ci ha reso meno familiari con l’idea di partecipare a partire dal riutilizzo e dal remix dei media; per la prossima generazione però, penso che questa sarà nuovamente la normalità, anche se si tratterà di una normalità digitale”.
Nel prosieguo dell’intervista, Glenn viene sollecitato da Owens a riflettere sul modo in cui le istituzioni culturali e deputate alla conservazione dovrebbero approcciare questi aspetti, e cosa dovrebbero cercare di preservare del folklore digitale, di modo che possa essere tramandato anche alle future generazioni.
“È una bella domanda, ma è anche molto difficile rispondere – argomenta Glenn – è strano, ma negli anni ’90 nessuno pensava minimamente a ‘come conservare questa roba di Internet’. Sembrava che sarebbe rimasta per sempre lì, mentre ora è chiaro che così come le cose possono rimanere on line per un lungo periodo, allo stesso modo tutto può cambiare in maniera estremamente rapida, e in effetti l’Internet che viviamo oggi ha un aspetto totalmente diverso rispetto a quella del 1999. Sono davvero contento di avere salvato centinaia e centinaia di siti web sui quali stavo lavorando al momento. Ancora oggi molti editori si lamentando che i siti da me citati in un articolo non sono più on line. Ma che dire, è Internet! E cambia! Ed è per questo che è così cool! Insomma, certamente c’è un mare di contenuti artistici molto interessanti là fuori, contenuti che dovrebbero essere salvati, e che probabilmente lo saranno. Ma come regolarsi con quella che potremmo definire l’arte quotidiana? E qui, come per quel che riguarda gran parte del folklore del passato, penso che non sia tanto importante chiedersi cosa salvare, ma come farlo. Sicuramente è una gran cosa avere centinaia di foto ritoccate con Photoshop, collezione dei top memes e delle catene via e-mail, o ancora archiviare quel classico della ASCII art. ma quello che valorizza gli archivi del passato è la contestualizzazione di quello che viene conservato: non semplicemente tutti i tweet (sebbene sarebbe una cosa fantastica!), ma gruppi di persone che si scambiano tweet, le loro biografie, i sentimenti che provano l’uno nei confronti dell’altro, quello che fanno oltre a twittare: sono questi dettagli di contesto che rendono alcuni archivi particolarmente interessanti; e queste sono le cose più difficili da recuperare e conservare. Avremo tantissimi esempio di mashup video pescati da YouTube nel 2012, ma quanti di questi potremmo associarli con l’insieme dei commenti che hanno ricevuto, le interviste a chi li ha realizzati o interpretati, o ancora con gli utenti di Facebook che li hanno postati e commentati sulle proprie bacheche? Si tratta di un tipo di ricchezza più difficile da ottenere, ma allo stesso tempo secondo me di maggiore interesse e valore, e per questo degna di essere preservata”.