Il pdf rovina la democrazia?
“È come se finanziassimo James Cameron per girare un film della portata di Avatar, ma dopo lo mettessimo in circolo con un flipbook in bianco e nero”. La metafora, frutto delle osservazioni di un esperto di open data della Casa Bianca, è effettivamente un po’ forte. E anche il titolo dell’articolo, “Il pdf sta rovinando la democrazia?”, non scherza affatto in proposito. Ma evidentemente i ragionamenti che il giornalista Alex Hern affida alle colonne del Guardian non sono del tutto infondati. Anche perché si basano non su semplici impressioni, quanto piuttosto su numeri e tendenze quantificati con estrema precisione dalla World Bank. Tutto comincia quando la banca realizza un report – ovviamente pubblicato in formato pdf, fa notare ironicamente Hern – per rendere noto che negli ultimi 5 anni, il 31% delle sue pubblicazioni in pdf, materiale che spazia dai paper accademici, ai briefing politici alle note di ricerca, non sono mai stati scaricati. Più precisamente, dal report si apprende che delle 1.611 pubblicazioni divulgate dal 2008 al 2012, solo 25, un misero 1,55%, sono state scaricate più di 1.000 volte. E 517 paper, il 31% del totale appunto, non sono state degnati nemmeno di un download.
Gli stessi autori dello studio non hanno mancato di precisare che si sta parlando di materiali per nicchie ed addetti ai lavori. Ma resta che qualche problema di “audience” viene comunque riscontrato. E a detta di Hern – per tornare all’articolo del Guardian che tanta attenzione ha suscitato dopo la sua uscita – potrebbe dipendere proprio dalle caratteristiche del pdf. “Questo formato – scrive a riguardo – sta intrappolando informazioni di notevole rilevanza, non lette e non apprezzate nei server”. E questo perché, stando alla sua tesi, se ha pienamente soddisfatto il bisogno di garantire una leggibilità accettabile dei documenti a prescindere dallo strumento di visualizzazione, forse non è in grado di assecondare altre esigenze sempre più impellenti in un mondo che ormai produce, legge condivide e remixa tutto in digitale.
“Il portable document format o pdf – si legge nel commento – fu inventato da Adobe nel 1993 per far sì che la resa visiva dei documenti composti da testo e immagini fosse uniforme e coerente su tutte le piattaforme informatiche e con qualsiasi pacchetto software. Un documento salvato in pdf dovrebbe apparire sempre nello stesso modo, a prescindere da cosa si usi per vederlo, ed è proprio questa caratteristica ad averne decretato la popolarità, specie per la produzione di report particolarmente complessi.
Ma le soluzioni tecniche scelte per garantire questa uniformità – prosegue Hern – sacrificano spesso la leggibilità da parte delle macchine in favore di quella umana. Il formato basico non prevede alcuna funzione per la selezione e la ricerca di singole porzioni testuali, e in più spesso è impossibile esportare i dati presentati sotto forma di grafici e tabelle, per i più comuni scopi di riuso informatico.
Questo impedisce di setacciare i documenti per estrapolarne determinate categorie di dati, e creare nuovi database informativi attingendo a più fonti. Infine, nonostante gli sforzi compiuti per creare convertitori automatici dal pdf all’html, ancora oggi occorre la supervisione umana per scovare gli errori di interpretazione”.
Motivazioni più che sufficienti per cominciare pensare a un’alternativa, sostiene Hern. “Se non vogliamo perderci tutto il materiale di valore contenuto nei file pdf – è la sua chiosa – è arrivato il momento di cambiare”.
Sempre sul Guardian però, il giornalista Steven Poole non si professa pienamente d’accordo con questa visione. Non che risparmi critiche ad una “reliquia dell’era in cui tutti pensavano al desktop publishing come l’unico futuro possibile”, ma la domanda che fa da impalcatura al suo ragionamento e se esistano effettivamente alternative concrete per mandare in pensione il pdf. La sua risposta è negativa: né i formati commerciali pensati per essere letti solo con i software proprietari di riferimento, né i vari open document format, purché sempre più spalleggiati in ambito istituzionale, dispongono infatti a suo avviso della versatilità necessaria per la creazione di quelle “brochure patinate” che tanto piacciono ai manager.
“Certo – conclude ironicamente Pool – il vero hacker anti-establishment continuerà a salvare tutto in file .txt, anche se il prezzo da pagare è che se si vogliono includere immagini nel documento, tocca accontentarsi della ASCII art. Cosa che probabilmente non impressionerà il boss in attesa di una nuova, scintillante brochure promozionale. Questo il motivo per cui temo che, fin quando avremo bisogno di quelle brochure, nella necropoli virtuale dei pdf, la popolazione di file zombie, non vivi ma neanche morti, continuerà a crescere ancora per un po’”.