L’importanza della storia orale e l’esperienza del Pop Up Archive
L’esperienza del Pop Up Archive viene analizzata con una lunga intervista di Jefferson Bailey, membro della National Digital Stewardship Alliance Innovation, a Bailey Smith e Anne Wootton, due delle co-fondatrici del progetto. Le due ragazze, entrambe provenienti da una formazione e prime esperienze lavorative di stampo umanistico più che meramente tecnologico, affermano di avere avviato il progetto per fare fronte ai rischi di obsolescenza cui vanno incontro le produzioni radiofoniche indipendenti, spesso prive delle risorse e delle competenze necessarie per preservare il proprio patrimonio di programmazione. Per questo motivo hanno pensato a mettere in contatto questo universo, e la sua effervescenza, con quello delle grandi istituzioni culturali e della conservazione, sicuramente più attrezzate per far fronte alla necessità di preservare e tramandare quanto prodotto e condiviso sui media digitali.
L’aspetto veramente interessante riguarda però soprattutto la scelta delle soluzioni tecnologiche e organizzative adottate per il popolamento dell’archivio. Come spiegano al proprio interlocutore, i curatori del progetto hanno deciso di utilizzare la piattaforma di web publishing open source Oneka, molto utilizzata per la presentazione on line di collezioni di biblioteche, musei e archivi, grazie alla quale i produttori radiofonici possono catalogare ed archiviare i propri contenuti senza soluzione di continuità direttamente durante la loro fase di produzione. Questi materiali, editati e arricchiti di metadati, vengono quindi archiviati sui database dell’Internet Archive, che ha scelto di appoggiare e sostenere il progetto, e per i produttori che lo vogliono, vengono anche condivisi sulla piattaforma social Soundcloud, di modo che chiunque interessato possa ascoltarli, commentarli e segnalarli ad altri utenti.
Il Pop Up Archive si configura insomma come un interessante progetto all’intersezione tra il web publishing radiofonico, l’archiviazione on line e i social media, ed anche per questo motivo ha catturato l’attenzione di molti esperti di innovazione negli Stati Uniti, ricevendo tra le altre cose un significativo finanziamento di 300.000 dollari da parte della Knight Foundation, che sostiene tra le altre cose progetti finalizzati all’uso dei new media nel campo del giornalismo e dell’editoria.
Nell’intervista, tra le altre cose, le fondatrici descrivono la fase di studio e ascolto dei produttori indipendenti che ha preceduto il lancio della piattaforma, definendo come cruciale la scelta, derivata proprio da questa attività di interlocuzione, di integrare l’archiviazione dei contenuti direttamente nel lavoro quotidiano delle emittenti. Se queste avessero percepito la conservazione della propria programmazione come un costo ed un ulteriore sforzo da compiere, spiegano, non avrebbero mai aderito all’iniziativa, che sembra quindi funzionare anche e soprattutto per la facilità e l’immediatezza di utilizzo delle soluzioni.
“Con la proliferazione attuale dei media digitali – si legge a tale proposito – l’archiviazione e la produzione sono (o comunque dovrebbero essere) sinonimi. Per questo la semplicità d’uso è così fondamentale per noi: i nostri sistemi non avrebbero successo se non fossero direttamente e automaticamente integrati con i flussi di lavoro quotidiani dei produttori. E se per loro non è immediatamente chiaro che il Pop Up Archive, in definitiva, permette di risparmiare del tempo, non hanno alcun motivo valido per utilizzarlo.
E quando parliamo di risparmiare tempo – proseguono la Smith e la Wootton – ci riferiamo a due differenti tipi di risparmio: da un lato quello delle emittenti, che producono e archiviano i contenuti in contemporanea, ma anche quello che ne deriva per chiunque sia impegnato in attività di ricerca negli archivi di storia orale, perché grazie al nostro sistema questa attività diventa molto meno difficile e sicuramente più soddisfacente”.
In conclusione si fa riferimento anche ai workshop che il Pop Up Archive ha cominciato a organizzare di recente per presentare il progetto a potenziali nuovi utenti (“si tratta di momenti molto utili, perché mostrare è meglio di raccontare”, dichiarano le intervistate), e si prova a formulare una sorta di “morale della favola” per quanti volessero impegnarsi in analoghi progetti di conservazione digitale:
“Parlate alle persone – affermano la Smith e la Wootton – il mondo della conservazione digitale è una community inclusiva e accogliente in cerca di soluzioni. Non siamo più in grado di tenere a mente tutte le chiacchierate informali che ci hanno portato a fare significative scoperte, o ancora ci hanno permesso di conoscere nuove persone ricchissime di spunti, e in questo modo di portare avanti il nostro lavoro.
E non abbiate paura di quello che non conoscete. Nel nostro ufficio, il mantra quotidiano è ‘immagina quello che scopriremo di nuovo la prossima settimana’. Siamo davvero eccitate da quanto abbiamo appreso finora e da quanto tutto questo ci abbia aiutato a superare ostacoli che spesso parevano insormontabili”.