L’oblio digitale come alba di un nuovo Medio Evo?

È a partire da questa forzatura, e in particolare dal paragone con l’incendio della biblioteca di Alessandria, che un articolo dell’Economist sostiene l’importanza di tracciare la memoria di Internet e conservare, specie attraverso iniziative pubbliche, i tanti dati, contenuti e documenti che rischiano di scomparire a causa del sempre più frenetico e incessante cambiamento tecnologico

Foto tratta dal profilo Flickr di riekhavoc, rilasciata con licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-NC-SA 2.0)Lo spunto per la riflessione viene da una constatazione che riguarda lo stesso Economist. La sua prima web page, si legge nell’incipit, fu realizzata nel 1994 dal corrispondente californiano della testata e, quando un anno e mezzo dopo fu rimpiazzata da una nuova versione, andò persa per sempre. D’altronde, prosegue l’articolo, anche la madre di tutte le pagine web, quella creata da Tim Berners Lee e dai suoi collaboratori del CERN di Ginevra nel 1991, non è stata conservata, a testimonianza del fatto che l’ascesa di Internet a nuovo paradigma mondiale della comunicazione è stata caratterizzata da un’autentica bulimia per quanto riguarda lo sviluppo frenetico di prodotti, servizi e applicazioni, ma davvero da scarsa attenzione alla necessità di preservare tutto quello che nel giro di pochissimo rischiava di diventare vecchio e superato.

“Questa opera di civilizzazione sta dando come risultato una preoccupante amnesia”, afferma in proposito un esperto citato nell’articolo, mentre un altro studioso intervistato propone l’inquietante paragone tra la situazione attuale e la fine della biblioteca di Alessandria, considerata da alcuni storici come lo start dell’oscurantismo, a causa della perdita di gran parte del sapere e della conoscenza mondiali.

Proseguendo, l’articolo ridimensiona la portata di questa analogia: non siamo sicuramente all’imbocco di un nuovo Medio Evo, ma è evidente che occorrono più sforzi, specie da parte delle istituzioni pubbliche o comunque non profit, per tenere traccia di quanto è stato e sarà prodotto dall’umanità in digitale e un domani potrebbe non essere più leggibile né rintracciabile a causa della rapida obsolescenza di software, formati e tecnologie.

Nel testo si citano anche alcune iniziative già promosse in tal senso, dalla The Wayback Machine inventata dall’imprenditorie filantropo Brewster Kahle per cercare  e recuperare le versione delle pagine web finite nel dimenticatoio, all’Internet Archive, creato dallo stesso Kahle proprio sulla base della sua invenzione, con l’intento di conservare e rendere accessibili on line tutte le pagine e gli altri contenuti web fin qui prodotti. L’articolo fa riferimento anche all’ultimo spin off dell’articolo, l’Open Library, con la quale si punta alla realizzazione di una pagina web per ogni singolo libro attualmente esistente, e cita, invitando a non confondere i due progetti, il Progetto Gutenberg, che a sua volta mette a disposizione circa 40.000 e-book scaricabili gratuitamente.

Ma che senso hanno sforzi del genere nel momento in cui giganti come Google, Amazon e Apple stanno investendo massicciamente su analoghi progetti di digitalizzazione e conservazione della memoria? Nella risposta, in chiusura, il senso e la sintesi dello pensiero che ispira l’intera riflessione:

“La risposta più ovvia è che le società private permettono di accedere ad alcune informazioni solo a pagamento, mentre gli archivi non profit di solito sono gratuiti.

Denaro a parte, ci sono altri motivi per promuovere i progetti open-source. Uno di questi è che le società privati possono ad esempio essere molto restrittive sull’accesso ai propri contenuti archiviati attraverso motori e strumenti di ricerca diversi dai propri. E anche quando si ha a che fare con materiali vecchi abbastanza da non essere più soggetti a diritti d’autore, i privati potrebbero impedire agli utenti di copiarli o redistribuirli.

Come fanno insomma notare i promotori dell’Internet Archive, senza biblioteche le persone potrebbero avere difficoltà a esercitare il proprio ‘diritto alla memoria’.

E quanto più l’informazione pubblica migra dal cartaceo al digitale, tanto più è fondamentale che le biblioteche virtuali di qualsiasi genere archivino quanto più possibile per tutelare in futuro i principi di accesso e reperibilità”.

Leggi l’articolo integrale sull’Economist (inglese)

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ultima modifica 2012-09-06T19:21:00+02:00
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