La Corte Europea a Google: “rimuova i link in nome del diritto all’oblio”
La notizia è del 13 maggio ed è di quelle da lasciare un segno indelebile nella storia della giurisprudenza in materia di Internet, e in particolar modo del delicatissimo rapporto tra diritto e logiche dell’informazione, e tutela della privacy e diritto all’oblio. Tutto ha origine nel 2009 in Spagna, quando un cittadino chiede al Garante locale che la testata giornalistica La Vanguardia e Google rimuovano, rispettivamente dal proprio archivio digitale e dai risultati di ricerca, un link relativo all’asta giudiziaria per la vendita della sua casa, risalente al 1998. Di tempo ne è passato – sostiene il diretto interessato – i problemi e debiti che hanno portato a quella scelta sono stati ormai appianati, ed è tempo dunque che quell’articolo scompaia per non continuare a ledere la sua reputazione a distanza di anni. In risposta alle sue richieste, il Garante spagnolo precisa sin da subito che non si può chiedere alla testata di rimuovere l’articolo dal proprio archivio digitale, ma sottopone alla Corte di Giustizia Europea un esame approfondito sulla posizione di Google e più in generale dei motori di ricerca: è il caso che questi strumenti rimuovano link ad articoli e notizie non solo se evidentemente diffamatori, ma anche quando, passato un determinato lasso di tempo, potrebbe essere sensato dimenticare quelle fonti perché ormai irrilevanti e in un certo senso “scadute”?
Una domanda tutt’altro che banale, attorno alla quale ruota l’intera, complessa e controversa questione del diritto all’oblio in rete, alla quale la Corte risponde inizialmente con un indirizzo generale che sembra scagionare i motori di ricerca: “l’avvocato generale Jääskinen – si legge nel comunicato a riguardo del giugno 2013 – considera che i fornitori di servizi di motore di ricerca non sono responsabili, ai sensi della direttiva sulla protezione dei dati, del fatto che nelle pagine web che essi trattano compaiano dati personali”. A quasi un anno di distanza però, tutto si rovescia, e con una sentenza resta nota il 13 maggio la Corte afferma quanto segue:
“la Corte constata anzitutto che, esplorando Internet in modo automatizzato, costante e sistematico alla ricerca delle informazioni ivi pubblicate, il gestore di un motore di ricerca «raccoglie» dati ai sensi della direttiva (Direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995). La Corte giudica inoltre che il gestore «estrae», «registra» e «organizza» tali dati nell’ambito dei suoi programmi di indicizzazione, prima di «conservarli» nei suoi server e, eventualmente, di «comunicarli» e di «metterli a disposizione» dei propri utenti sotto forma di elenchi di risultati. Tali operazioni, contemplate in maniera esplicita e incondizionata dalla direttiva, devono essere qualificate come «trattamento», indipendentemente dal fatto che il gestore del motore di ricerca applichi le medesime operazioni anche ad altri tipi di informazioni diverse dai dati personali. La Corte ricorda inoltre che le operazioni contemplate dalla direttiva devono essere considerate come un trattamento anche nell’ipotesi in cui riguardino esclusivamente informazioni già pubblicate tali e quali nei media (…) la Corte reputa inoltre – prosegue il testo poco più avanti che il gestore del motore di ricerca sia il «responsabile» di tale trattamento, ai sensi della direttiva, dato che è lui a determinarne le finalità e gli strumenti del trattamento stesso”.
Questi i presupposti di principio dai quali scaturisce la sentenza, con la quale si invita Google a prendere in considerazione, d’ora in avanti, tutte le richieste di coloro che si sentono danneggiati dai contenuti indicizzati nei suoi server e ne chiedono pertanto la rimozione in nome del diritto all’oblio. A meno che essi non siano personaggi pubblici o comunque coinvolti in vicende di interesse generale, per i quali i tribunali abbiano stabilito la necessità di privilegiare il diritto all’informazione su quello alla privacy, se non ascoltati da Google o altri motori di ricerca, i cittadini potranno ricorrere anche per via giudiziaria. E a nulla varrà la tesi difensiva finora adottata dalla società californiana, che proprio in nome delle proprie origini statunitensi ha sempre sostenuto di non essere tenuta al rispetto delle direttive comunitarie. Valutazione errata – sostiene la Corte – perché se il motore di ricerca opera con una o più filiali in territorio europeo, automaticamente è chiamata a rispettarne le norme.
La sentenza non è comunque totalmente sbilanciata in nome del diritto all’oblio:
“Poiché la soppressione di link dall’elenco di risultati – recita un altro passaggio del comunicato – potrebbe, a seconda dell’informazione in questione, avere ripercussioni sul legittimo interesse degli utenti di Internet potenzialmente interessati a avere accesso a quest’ultima, la Corte constata che occorre ricercare un giusto equilibrio tra tale interesse e i diritti fondamentali della persona interessata, e segnatamente il diritto al rispetto della vita privata e il diritto alla protezione dei dati personali”.
Resta però che si tratta di un pronunciamento destinato a fare molto rumore, e a dire il vero ha già cominciato a farlo. Così, mentre il Commissario europeo della Giustizia Viviane Reding scrive su Facebook di “chiara vittoria per la protezione dei dati personali degli europei”, Google parla di “sentenza deludente” e chiede tempo per analizzarne le implicazioni. Intanto però, veloce come la luce, la notizia è rimbalzata in tutto il mondo, e per dare un’idea del dibattito che ci aspetta nelle prossime settimane, ci limitiamo a sottolineare per qualcuno, oltreoceano, scrive di “Inquisizione spagnola”. Tutto lascia presagire insomma che i torni si infuocheranno, e nostro compito sarà cercare di rendere conto dell’evolversi delle vicende per capire quali implicazioni potranno esserci per chi si occupa, anche in ambito pubblico, degli incroci tra divulgazione e fornitura dei dati, e tutela del diritto alla privacy.