Parole in digitale. Come cambia la storia orale grazie ai new media
Presentando Doug Boyd, il blog The Signal lo definisce uno dei leader più influenti nel campo della storia orale, oltre che un pioniere nell’uso delle tecnologie digitali per la conservazione e la diffusione di questo tipo di fonti. Fonti alle quali l’esperto, direttore del Louie B. Nunn Center for Oral History, fa riferimento come “materiale vivente”, sottolineandone la differenza con gli altri tipi di documenti con i quali hanno normalmente a che fare gli storici:
“Alcuni dettagli nelle interviste possono essere sfocati e poco chiari – afferma in proposito - la memoria è tutt’altro che un meccanismo perfetto, ma le registrazioni catturano qualcosa che di solito gli storici ignorano: cosa ha pensato o sentito qualcuno vivendo in prima persona un determinato evento. Tenere traccia della storia orale è qualcosa in più di una citazione nella pagina di un libro. Si tratta di una storia ricca di senso, raccontata da qualcuno cui quella storia appartiene personalmente”.
E il bello del digitale, prosegue l’articolo entrando nel vivo, è che ora queste storie possono essere ascoltate ovunque e in ogni momento, oltre che prodotte e distribuite con molti meno sforzi e risorse rispetto a quelli necessari fino ad oggi. Partendo dal primo aspetto, Boyd fa notare la profonda differenza che può passare tra la registrazione di nastri magnetici (o cd) e la loro conservazione in biblioteche ed altri edifici deputati all’archiviazione di documenti, e la possibilità di mettere on line dei file audio o video che chiunque può scegliere di fruire a proprio piacimento. Il salto è tale, sottolinea l’esperto, che vengono di fatto messi in discussione tutti i parametri di riferimento finora considerati come validi.
“Un visitatore del Nunn Center – si legge nel testo – prese in prestito degli apparecchi per intervistare un veterano della Seconda Guerra Mondiale. Nel giro di quattro giorni l’intervista era stata effettuata, salvata su un computer, arricchita con immagini trovate sul web e infine confezionata in un documentario a sua volta messo on line. ‘Questo ragazzo aveva circa 700 amici su Facebook – spiega Boyd – e così in un attimo il suo lavoro era stato visto da una audience che fino a poco tempo prima il nostro centro avrebbe raggiunto, vantandocene, nell’arco di un intero anno di lavoro”.
La seconda parte dell’approfondimento è dedicata a come sta cambiando la pratica di registrare le testimonianze orali grazie al digitale, e in particolar modo a quanto col tempo uno degli elementi chiave e anche più dispendiosi di questa pratica, vale a dire la trascrizione, cominci a perdere centralità, con tutto quello che ne consegue in termini di velocizzazione del lavoro e semplificazione della fruizione delle fonti. Boyd sottolinea quanto l’attività di trascrivere sia lenta, faticosa e soggetta alla produzione di errori che a volte restano in maniera indelebile e compromettono la stessa qualità delle fonti. Ma soprattutto, aggiunge l’esperto, finora la necessità di mettere su testo quanto raccolto a voce ha di fatto spostato il focus dell’attenzione dalla vera e propria fonte, ovvero la testimonianza orale, a qualcosa che resta comunque un suo surrogato. Ed è proprio su questi aspetti che il digitale sta gradualmente attuando dei cambiamenti destinati a modificare drasticamente la disciplina. Boyd riconosce che ancora oggi non c’è possibilità di indicizzare al 100% un testo registrato in digitale, così come che gli indici creati manualmente a partire dalle trascrizioni restano il principale appiglio per chi si occupa di storia orale. Allo stesso tempo però, fa riferimento a diversi progetti che stanno progressivamente mutando questo scenario e che, specie in riferimento agli ultimi citati nell’articolo, mettono di fatto in discussione la stessa necessità di trascrivere integralmente le interviste, aprendo di fatto delle grandissime opportunità in termini di abbattimento dei tempi e dei costi di produzione dei materiali documentari.
Procedendo con ordine, il direttore del Nunn Center fa riferimento all’uso dei software per il riconoscimento automatico dei contenuti audio e la loro trascrizione testuale. Si tratta di programmi analoghi a quelli OCR comunemente utilizzati per la traduzione in parole delle immagini, si legge nel testo, e come questi ultimi, per quanto in costante miglioramento, restano ancora oggi imprecisi e ad esempio non in grado di catturare la complessità di dialetti, accenti e inflessioni varie. Boyd aggiunge anche che è allo studio la creazione di software per l’attribuzione automatica dei metadati descrittivi ai contenuti audio, di modo da facilitare la ricerca di specifiche porzioni di contenuto, e passa quindi a descrivere il principale strumento realizzato dal proprio centro, partendo da questa idea di base.
Lo strumento si chiama Oral History Metadata Synchronizer e permette di cercare specifici contenuti sia nelle trascrizioni testuali nelle interviste sia, in automatico, nei file audio o video che riproducono le stesse interviste. Digitando le parole chiave di proprio interesse, gli utenti possono così sia visualizzare tutte le parti di testo trascritto nelle quali esse compaiono, sia accedere direttamente all’ascolto di quei blocchi dell’intervista nei quali gli intervistati le pronunciano. Si tratta di un metodo che parte dalla “scomposizione” delle fonti originarie in blocchi della durata di un minuto – specifica Boyd, aggiungendo che oltre questa soglia le persone tendono ad abbandonare l’ascolto, se non hanno ancora trovato quello che cercavano – ed è indubbiamente un bel passo in avanti per chi deve fruire di contenuti di questo genere per finalità di studio e ricerca.
Ciononostante nel testo si spiega che, pur accrescendo la fruibilità e l’usabilità delle fonti, l’attuale versione dell’Oral History Metadata Synchronizer si basa sulla necessità di continuare a trascrivere per intero le interviste, con tutto ciò che ne consegue dal punto di vista del tempo e delle risorse richieste. Per questo motivo, spiega Boyd, la prossima versione del software introdurrà un nuovo sistema di indicizzazione dei contenuti in grado di prescindere, finalmente, dalla trascrizione integrale delle interviste.
“Questo ci permetterà di risparmiare moltissimo rispetto ai costi sostenuti finora – si legge nell’articolo – e garantirà anche ulteriori vantaggi dal punto di vista dell’interpretazione delle fonti, perché le ricerche non avverranno più partendo dalla trascrizione fedele e automatica delle interviste, quanto, piuttosto, dall’analisi e dalla successiva scrittura ragionata dei metadati da parte degli storici. Ad esempio – prosegue il testo – in una intervista di due ore sulla vita ai tempi della segregazione razziale, l’intervistatore e l’intervistato potrebbero anche non citare mai i termini ‘segregazione’ o ‘emancipazione’. Un indice ragionato e costruito a partire da una pratica di ascolto da parte di chi è in grado di comprendere e interpretare il contesto permetterà di far fronte a questo tipo di problemi, di modo che, rimanendo allo specifico caso, ci possano essere dei passaggi dell’intervista appositamente classificati e ricercabili a partire dal termine ‘segregazione’”.
Nel resto dell’articolo si fa riferimento tra le altre cose anche al progetto Oral History in the Digital Age, con il quale si punta a fornire strumenti e supporti, tra cui anche video tutorial, per facilitare e migliorare la produzione di fonti basate sulle testimonianze orali.
“Uno di questi video – specifica il testo con qualche esempio – illustra i concetti base della tecnica dell’illuminazione a tre punti, mentre un altro spiega come trattare i materiali audio, rendendo ad esempio evidente che quando si cerca di pulire il suono e limitare al minimo il rumore e il disturbo, si rischia di perdere anche suoni di sfondo che potrebbe avere senso salvaguardare ai fini dell’arricchimento della fonte”.
In chiusura, l’approfondimento di The Signal contestualizza il lavoro di Boyd e dei suoi colleghi in un più ampio scenario caratterizzato dal crescente utilizzo digitale e dei new media nel campo della storia orale. A tale proposito, l’articolo cita di sfuggita e rimanda ai progetti StoryCorps (al quale il sito di ParER ha dedicato una news lo scorso anno) e Veteran’s History Project, quest’ultimo promosso proprio su iniziativa della Library of Congress.