Professione curator: 3 interpretazioni per provare a definire un concetto
Per chi scrive su queste pagine, la domanda che apre l’articolo di Leslie Johnston suona tutt’altro che banale, tanto più che alla questione terminologica in sé si aggiungono quelli che sono i classici problemi cui si va incontro traducendo da una lingua ad un’altra. È infatti sempre molto difficile scegliere la parola o il concetto giusto da associare al termine curation, ma a quanto pare appunto il problema non è solo di traduzione, essendo allocato a monte dell’intera questione. Perché se è vero – come afferma l’esperta di conservazione digitale – che si sta assistendo a una vera e propria inflazione del suo utilizzo, quantomeno nel panorama anglosassone, lo è altrettanto che provare a rispondere alla domanda da cui scaturisce la sua riflessione è forse più complesso di quanto si potrebbe pensare.
“Vedo collezioni curate nei negozi al dettaglio – si legge nell’incipit del suo approfondimento – sui siti web, nei magazine, nei nomi delle imprese. Ho visto addirittura menù curati, e con questo non intendo collezioni di menù, ma carte che descrivono il cibo come curato. I social media curano storie e i festival musicali sono a loro volta curati, al pari ormai dei brand. Esiste addirittura il profilo Tumblr “Curating the Curators”, che tiene il conto di quante volte ci si imbatte negli usi più svariati del termine, e di certo non posso tacere l’esistenza del favoloso meta-tumblr “Curate Meme”, ‘dove i curatori – recita l’home page - curano i meme sulla curation. Quale sarà la prossima tappa dell’assurdo uso del termine curation?.”
È a partire da questa babele di significati e interpretazioni che la Johnston muove i propri passi, segnalando una serie di articoli e approfondimenti che hanno già provato a focalizzare il tema da vari punti di vista, e poi proponendo tre personali letture del termine: la curation come acquisizione, esibizione e conservazione.
Ma procediamo con ordine. Per acquisizione, l’esperta fa riferimento all’arte della selezione: ogni collezione nasce per uno scopo, e a partire da quello scopo ci saranno cose che potranno esservi incluse e altre che occorrerà lasciare fuori. Chi si occupa di fare curation, quindi, è costantemente impegnato in attività di ricerca, valutazione, e contestualizzazione, per raffinare e aggiornare di continuo le proprie attività di selezione. “È come se fosse perennemente in auscultazione delle collezioni e dei loro singoli componenti – si legge nell’articolo – in cerca di nuovi sviluppi per le policy che lo portano a raccogliere ciò che può essere funzionale ai propri scopi”.
La curation ha però a che fare anche con il concetto di esibizione. Non solo si raccolgono oggetti in una collezione, ma si lavora anche per ideare un contesto e un messaggio che possano essere trasmessi a chi fruirà quella collezione. “Si usano set di oggetti e materiali per rendere conto di un’epoca o di un particolare fenomeno, o ancora si forniscono esempi per illustrare una questione”. E per farlo si ricorre a varie forme di comunicazione, dalle didascalie sui muri, ai cataloghi, ai siti web, accomunate nella loro eterogeneità dalla necessità di dare coerenza a una serie di elementi che non devono essere percepiti come una selezione casuale.
Infine, curation sta anche per conservazione, perché le collezioni – scrive la Johnston – vanno salvaguardate nel tempo, talvolta passivamente e delle altre in maniera più attiva. Il massimo della passività consiste ad esempio nel riporre gli elementi della collezione nella maniera più sicura possibile, limitando al minimo le occasioni di interazione con gli stessi, creando al contempo un inventario che permetta di sapere sempre cosa c’è e dove può essere reperito. Per le collezioni che invece cambiano nel corso del tempo, il curatore deve essere perennemente vigile, a caccia di segni di deterioramento degli elementi, o di quelli che a causa dei loro cambiamenti non sono più funzionali agli scopi della collezione.
Esposti questi tre concetti, l’esperta segnala altri articoli e risorse on line che provano a inquadrare la tematica, e alla fine fornisce una propria personale risposta alla domanda se sia il caso di biasimare o meno il sempre più diffuso utilizzo, spesso sfociante nell’abuso, del termine curation:
“Come mi sento quando qualcuno si appropria del termine? Da un lato sono contrariata: se tutti pensano di essere curatori, alla lunga si rischia di sminuire il valore di chi esercita professioni come la nostra. D’altro canto pero, un uso così dettagliato e diffuso della parola curation non è inappropriato se pensiamo a cosa in fondo fanno molti di noi – ovvero selezionare, mostrare e spiegare il valore di alcuni elementi – ovviamente per scopi e con criteri profondamente diversi gli uni dagli altri.
Le persone possono curare aspetti delle proprie esistenze, selezionando, controllando, revisionando e magari poi lasciando per strade cose come la musica, i libri o i vestiti. Perciò, per quanto alcuni usi possano apparirmi fastidiosi, tocca riconoscere che rientrano nello spirito del termine. E forse, in ultima analisi, la diffusione del termine curation nella cultura popolare permetterà di capire meglio i vari modi in cui ne facciamo uso, e in cosa consiste esattamente la nostra professione”.