Selezione, chiarezza ed esperienza: il rinascimento del giornalismo di carta made in USA

Su Il Foglio, Mattia Ferraresi racconta un dinamico sottobosco di testate nate su web e poi pubblicate anche su carta, sull’onda di un successo che nulla ha a che fare con la nostalgia, ma tanto con la qualità e la capacità di sfruttarne al massimo potenzialità e caratteristiche

Cuore pulsante di quello che Ferraresi descrive come un vero e proprio rinascimento cartaceo è Brooklyn. È nei loft e negli scantinati del distretto che negli ultimi anni ha avuto la forza di riconvertirsi e proporsi come vera e propria alternativa socioculturale alla fin qui ben più celebrata Manhattan, che un gruppo di giornalisti, grafici e pionieri di un nuovo modo di fare informazione è riuscito a rovesciare tutti i luoghi comuni sulla crisi dei giornali di carta, e la loro inevitabile condanna all’estinzione. Condanna che resta una prospettiva concreta per chi continua a pensare al giornalismo in senso classico, argomenta Ferraresi spiegando che nell’era di Internet, Twitter e del real time, è difficile sopravvivere se si continua a puntare sul “modello della conferenza stampa del giorno prima”. Quello “non è un modello, né un business, e neppure è informazione – spiega a riguardo – dato che arriva nelle mani del pubblico quando il pesce è già bell’e incartato e comincia pure a puzzare”. Ma questo non vuol dire che non esistano altri tipi di modelli, e a ben vedere è proprio questa la sfida lanciata dal manipolo di editori oggetto della sua attenzione.

Certo non si sta parlando di pubblicazioni da centinaia di migliaia o addirittura milioni di copie – si precisa nell’articolo – ma in determinate sottoculture, specie “nell’area di intersezione fra politica e letteratura”, c’è spazio per avventure editoriali in grado di catturare significative attenzioni sia tra gli abbonati, “che trepidano nell’attesa della loro copia sulla soglia”, sia tra i lettori occasionali, “che si baloccano in certe librerie indipendenti con scaffali ricolmi di riviste meravigliosamente curate”. N+1, McSweeney’s, The New Inquiry, Jacobin, The American Reader, The Brooklyn Rail, A Public Space e ovviamente il monumento New Yorker: questi i nomi delle riviste cui fa riferimento Ferraresi, parlando di un vero e proprio movimento nel quale si “condividono collaboratori, reading, eventi e festival letterari che trovano spazio nelle librerie indipendenti che fioccano a Brooklyn”, e che quasi sempre ruota attorno ad un principio fondamentale: quello per cui “le idee dei nativi digitali circolano su carta”.

Non a caso tutte queste testate, fatta eccezione per il New Yorker, sono nate prima su web e solo successivamente sono andate in stampa, partendo dalla consapevolezza che un simile passaggio avrebbe permesso di valorizzare al meglio alcuni degli aspetti che portano iscritti nel proprio codice genetico: selezione estremamente raffinata dei contenuti, chiarezza di intenti e talvolta ideologica, e fortissima attenzione alla dimensione esperienziale della lettura. Elementi che effettivamente è possibile focalizzare con estrema efficacia su carta, dimostrando l’estrema attualità e versatilità di un medium tutt’altro che in crisi senile a causa dell’avvento di Internet.

“Non è una forma di nostalgia di un’infanzia cartacea – conclude Ferraresi – chi produce riviste come queste è nato in una culla digitale. È una libera dichiarazione di appartenenza culturale per una generazione che un giorno si ritroverà a raccontare che ai nostri tempi c’erano solo i giornali online e noi abbiamo rilanciato la carta dagli scantinati di Brooklyn”.

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