Studiare, insegnare e pubblicare su YouTube, per demistificare YouTube
Magari ci sbagliamo, ma Alexandra Juhasz deve avere non pochi problemi a spiegare ai genitori o anche solo ai propri amici cosa fa nella vita. Se si limitasse a dire che insegna teoria dei media al Pitzer College, nella maggior parte dei casi potrebbe forse cavarsela. Ma se entrasse nel dettaglio, affermando che studia e insegna YouTube, e per farlo si serve di YouTube, temiamo che le cose potrebbero complicarsi. Cosa voglia dire tutto ciò concretamente, la Juhasz ha provato a spiegarlo di recente al blog The Signal della Library of Congress, come sempre pronto a drizzare le antenne quando si tratta di nuove modalità di produzione, diffusione e strutturazione della conoscenza attraverso i new media.
Oggetto centrale dell’intervista è il videolibro “Learning from YouTube”, prodotto dalla MIT Press e liberamente disponibile on line, che nasce da tre corsi universitari tenuti negli scorsi anni, interamente centrati sulla popolarissima piattaforma video. “Abbiamo registrato le lezioni (solo il primo anno) – afferma la Juhasz – di modo che si potesse poi vederle su YouTube; tutti i lavori assegnati agli studenti dovevano essere dei prodotti pubblicabili sulla piattaforma, sotto forma di video o di commenti; e le attività di ricerca necessarie per svolgerle potevano essere effettuate solo su YouTube, cosa importante per rendersi conto molto velocemente dei suoi enormi limiti”. Al centro di quella che potrebbe apparire come una vera e propria ossessione per il mezzo, ci sono infatti i suoi limiti e un approccio fortemente critico, intendendosi con questo termine la volontà di smontare pezzo dopo pezzo alcuni luoghi comuni. “La struttura del corso – tornando alle parole della ricercatrice – prova a far emergere alcune false promesse di YouTube e più in generale del web 2.0, affinché anche gli studenti possano rendersi conto di questi problemi”.
Problemi che a ben vedere hanno quasi sempre a che fare con la reale possibilità di accedere, tanto nel breve quanto e soprattutto nel lungo periodo, ai saperi e alle conoscenze prodotti con questi strumenti. Secondo la Juhasz, anche se il loro utilizzo ha avuto innegabili ricadute positive, quali ad esempio le varie Primavere arabe, non è assolutamente vero che YouTube e affini siano strumenti intrinsecamente democratici, a disposizione di chiunque, sia come canale espressivo sia come mezzo di informazione e apprendimento. Questa sarebbe la patina robusta con la quale se ne promuove l’utilizzo, ma piattaforme del genere sarebbero dominate da altre logiche. Alcune delle parole chiave che ricorrono nell’intervista sono distrazione, volatilità e superficialità:
Il loro interesse – spiega la Juhasz – è di tenere gli utenti incollati agli schermi affinché possano vedere il maggior numero possibile di annunci pubblicitari. E il processo per farlo è la fornitura incessante di un flusso di informazioni, per lo più effimere, la cui portata non ha precedenti nella storia dell’umanità. Ma a regolarlo e a dargli forma sono gli interessi economici piuttosto che, per fare un esempio, le priorità di una biblioteca universitaria.
Sarebbe insomma proprio la vastità dei contenuti forniti, quello che in gergo tecnico viene chiamato overload informativo, il problema di fondo. Cercare un ago in un paglialio, anche se la paglia è fatta di bit, era e rimane una attività estremamente faticosa. E magari su questi strumenti rischia di esserlo ancor di più, perché secondo la ricercatrice tutto sembra congiurare per rendere disorganizzata, caotica e casuale la ricerca dei contenuti. “È il loro modo di filtrarli”, aggiunge, mettendo in fortissima discussione l’idea che le piattaforme del web 2.0 siano un nuovo, sterminato archivio al quale attingere agevolmente per soddisfare la propria sete di sapere e conoscenza.
Solite teorie paranoiche e da complotto, si potrebbe obiettare, ma è proprio per non rimanere ancorata alla sola teoria che la Juhasz ha deciso di promuovere dei corsi su YouTube e poi realizzare un volume costruendolo letteralmente con i suoi video. “Ho stilato una lista dettagliata di tutti i problemi pratici cui si va incontro facendo una scelta del genere”, afferma, annoverando tra gli altri la paternità dei diritti d’autore, le dimensioni massime dei contenuti, l’editing e la loro manutenzione nel tempo. Il problema di base, quello che potremmo definire il nocciolo del suo ragionamento, è che se usi un mezzo come YouTube per diffondere dei contenuti, devi tenere ben presente che li stai cedendo a terzi, che di fatto non sono più un tuo possesso e che un domani, quando si tratterà di doverli recuperare, non è detto che si potrà farlo, perché non è ad una biblioteca o ad un archivio che sono stati affidati in custodia.
È tutt’altro che un caso quindi, anzi fa proprio parte degli scopi del lavoro, che alcuni “pezzi” del videolibro della Juhasz siano già oggi scomparsi, lasciando dei vuoti che stanno simbolicamente a significare il rischio di perdita della memoria che può derivare da una eccessiva fiducia nel web 2.0.
Non mi preoccupo minimamente del fatto che alcuni video stiano scomparendo – afferma lei – o che probabilmente l’intero libro presto potrebbe essere illeggibile perché scritto su un sistema a sua volta in via di obsolescenza. Proprio grazie a ciò possiamo smentire il mito che su Internet tutto sia destinato a durare, per sempre. Al contrario, la gran parte di quanto viene scritto e pubblicato on line è instabile, transitorio e difficilmente accessibile o reperibile, perché le piattaforme, i software e gli hardware cambiano costantemente.
Adesso – chiosa la Juhasz – quando parlo del progetto con altri colleghi, suggerisco che ci sono diverse ragioni per scrivere e pubblicare in digitale, dall’accesso, alla velocità, alla multicanalità e via discorrendo. Se però la loro intenzione è di fare in modo che quel lavoro sia consultabile anche in futuro, è molto meglio pubblicare un libro!.