Sudan del Sud, un archivio per salvare la nazione più giovane al mondo?
Con appena cinque anni di vita alle spalle, il Sudan del Sud è la nazione più giovane al mondo. Eppure la sua sopravvivenza è già seriamente a rischio. Nel 2011, dopo cinquantanni di lotta che sono costati la vita ad almeno due milioni di persone e l’esilio di altri dieci, i sudanesi del sud, in prevalenza di origine africana e credo cristiano, erano riusciti a ottenere l’indipendenza da quelli del nord, arabi e musulmani. Sembrava l’inizio di un radioso futuro, ma seppur radicalmente diversi da quelli del nord, i sudanesi del sud sono pur sempre un “popolo” composto da ben 64 tribù. Passata l’euforia iniziale, sono bastati appena due anni perché le fazioni capeggiate dal Presidente Salva Kiir, appartenente alla tribù dominante Dinka, e i fedelissimi del Vice Presidente Riek Machar, originario dei Nuer, entrassero in conflitto, trascinando il Paese sull’orlo di una nuova guerra civile. Ad oggi, in pochi scommetterebbero su un happy end, eppure un coraggioso manipolo di archivisti, operatori culturali e intellettuali è all’opera per provare a scriverlo con il proprio personale contributo. La loro storia è stata raccontata dal National Geographic: “Gli archivisti possono salvare la nazione più giovane al mondo?”, si sono chiesti la reporter Nina Strochlic e il fotografo Dominic Nahr. Nel reportage, danno voce e risonanza al sogno di salvare il Paese puntando sulla ricostruzione e salvaguardia di un patrimonio culturale comune.
Jok Madut Jok, nei primi mesi di vita del Sudan del Sud Sottosegretario alle politiche culturali, ha coltivato questo sogno fin dalla nascita del Paese. Nel reportage spiega che pur appartenendo a storie e tradizioni molto diverse tra loro, le tribù sudanesi del sud hanno molte cose in comune, non ultimo il sangue versato per l’indipendenza. Purtroppo, a causa di decenni di guerra ed esili forzati, gran parte di questo bagaglio è andato perso in mille rivoli. All’indomani dell’indipendenza, Jok aveva lanciato un ambizioso progetto per ovviare a questo stato di cose. Grazie a un generoso finanziamento del governo norvegese, e potendo contare sul supporto logistico e organizzativo dell’UNESCO, il politico aveva cominciato a “setacciare” tutti i villaggi del Paese alla ricerca di materiali di interesse storico e culturale. Di ritorno dalle loro missioni, gli operatori dell’UNESCO portavano con sé strumenti musicali, armi, gioielli e altri manufatti. In una grande tenda montata nella nuova capitale Juba, questi materiali venivano ripuliti ed esaminati, assieme a pile di documenti cartacei recuperati dagli scantinati della città, e quindi catalogati. L’obiettivo finale era la creazione di quelli che per Jok avrebbero dovuto essere i primi fondamentali mattoni per la costruzione di una nuova cultura unificata del Sudan del Sud: un archivio e un museo nazionale. “ Un archivio, un museo, un teatro nazionale, una lingua: realizzando istituzioni del genere - spiega Juba alla giornalista - avremmo creato un monito tangibile del sangue versato per l’indipendenza. Ma prima ancora che cominciassimo, i nostri leader lo hanno dimenticato”.
Con lo scoppio delle lotte intestine nel 2013, questi progetti sono stati interrotti e per molti sudanesi del sud è ricominciata la triste routine della fuga e dell’esilio. Anche i materiali fino a quel momento raccolti per l’archivio ed il museo, fortunatamente scampati alle distruzioni, sono stati spostati dalla tenda allestita a Juba: i primi sono finiti in un edificio preso in affitto, mentre i secondi sono stati trasferiti presso il Nile River Museum in Egitto. Nonostante tutto ciò, a fronte di serissimi rischi per la propria incolumità, alcuni professionisti della conservazione hanno deciso di rimanere. Tra gli altri, Thomas Becu. Già scappato negli anni ‘90, all’epoca teenager, e dopo avere passato diversi anni in un campo per rifugiati in Uganda, nel 2005 Thomas era tornato in patria e aveva ottenuto un impiego al Ministero della Cultura. Nel corso degli anni si era dedicato al recupero e alla salvaguardia di reperti storici e culturali, e dopo l’indipendenza era entrato nel team incaricato di realizzare l’archivio nazionale. Nel 2013, Thomas non ha abbandonato il suo posto. Rintanato in un piccolo container, continua a digitalizzare materiali che rischiano di andare persi a causa della crescente escalation di violenze. “Ogni mattina alle 9 - si legge nell’articolo - Thomas torna a lavorare su 2.000 scatole di cartone piene di documenti. Le svuota con estrema cura e scannerizza pagine fino alle 5 del pomeriggio”. I documenti, tra i quali sentenze dei tribunali locali, registri delle tasse, dati sui raccolti degl agricoltori e registri anagrafici, coprono un arco temporale che va dal 1903 al 1983. Con lui lavorano altre persone, potendo contare sulla disponibilità di dieci scanner. E se sugli esiti della nazione c’è ancora tanta incertezza, sulla sopravvivenza dell’archivio digitale ci sono meno dubbi: il Rift Valley Institute, alla guida del progetto fin dagli inizi, ha assicurato che questi preziosi documenti saranno messi in salvo e tramandati ai posteri.
Nonostante il titolo, nel reportage non si parla solo di archivisti. Un’altra storia è quella di Chiok Deng Nhial, antropologo 49enne che in un campo profughi dell’ONU allestito a Juba insegna ad un gruppo di persone, in prevalenza giovani, la storia della loro terra. “Alcuni sono andati via durante l’infanzia - spiega - per questo sono privi di riferimenti culturali. Col tempo sono diventate persone sradicate, prive sia dei valori del Sudan del Sud sia di quelli dei luoghi in cui hanno trovato rifugio”. Chiok e alcuni collaboratori hanno preso l’impegno di raccontare a una generazione di “sradicati” i riti e le tradizioni dei loro antenati, inclusi quelli più controversi e discutibili come le mutilazioni genitali femminili, la poligamia e i sacrifici umani. “Nel 2011 - spiega uno tra i partecipanti più anziani - il nostro governo non ha integrato le culture. Adesso abbiamo cominciato a farlo in autonomia”. “Un’intera generazione ha perso la propria cultura a causa della guerra - aggiunge Isaac Loang Koang, 28 anni - i nostri genitori sono stati uccisi durante i combattimenti e noi abbiamo dovuto fuggire. Per diventare noi stessi, abbiamo bisogno di conoscere a fondo queste cose”.
Un altro eccentrico personaggio di cui si racconta nell’articolo è Akuja de Garang, stilista ed educatrice 41enne. Dopo aver vissuto per anni nel Regno Unito, nel 2004 è tornata in patria e nei successivi dieci anni, per conto dell’ONU, ha girato il Paese alla ricerca di materiali e oggetti di interesse storico e culturale. “La cultura mi ha sempre affascinato - racconta - ma da noi c’era poco di scritto e gran parte delle tradizioni stava scomparendo assieme alle vecchie generazioni, anche perché conservarle non era una priorità”. Per questo ha deciso di esporre i frutti della sua ricerca nella propria abitazione, quanto di più simile si possa paragonare a un museo in tutto il Sudan del Sud, si legge nell’articolo. Sulle pareti e sui tavoli abbondano piatti di legno tradizionalmente indossati dalle donne del posto, corsetti di perline e sculture di legno. Per ognuno di essi, Akuja ha una storia da raccontare alle tante persone che le fanno visita per conoscere la storia del Paese.
In attesa di capire se ci sarà un futuro, grazie a questi e altri professionisti della cultura si lavora lentamente e faticosamente, ma con piccoli significativi risultati, alla ricostruzione del passato. “Sono ancora qui nel container a tenere accesa una candela contro l’oscurità”, ha scritto Thomas Becu alla giornalista del National Geographic ad agosto, dopo una improvvisa ripresa delle ostilità nel mese di luglio. “Il mio timore più grande - ha aggiunto - è che se non tramandiamo la storia delle persone che hanno vissuto in questo posto, le generazioni future potranno ricadere negli stessi errori. Di sicuro nessuno vorrebbe rivivere il nostro destino fatto di guerra, esilio e carestia. Un modo perché i nostri figli possano scamparlo è ricordargli come siamo arrivati fin a questo punto”.