Trasparenza: una sentenza della Corte Costituzionale
Con la sentenza n° 20, depositata lo scorso 21 febbraio, la Corte Costituzionale ha stabilito che, contrariamente a quanto previsto dalla normativa in materia di trasparenza istituzionale e amministrativa, l’obbligo di pubblicazione dei dati relativi ai compensi e ai beni patrimoniali non può essere esteso indiscriminatamente dai titolari di incarichi politici a tutte le tipologie di dirigenti pubblici. Piuttosto, deve essere limitato alle sole figure apicali.
“La pubblicazione - si legge in un comunicato della stessa Corte - riguarda, in particolare, i compensi percepiti per lo svolgimento dell’incarico e i dati patrimoniali ricavabili dalla dichiarazione dei redditi e da apposite attestazioni sui diritti reali sui beni immobili e mobili iscritti in pubblici registri, sulle azioni di società e sulle quote di partecipazione a società. Questi dati in base alla disposizione censurata, dovevano essere diffusi attraverso i siti istituzionali e potevano essere trattati secondo modalità che ne avessero consentito l’indicizzazione, la rintracciabilità tramite i motori di ricerca web e anche il loro
riutilizzo”.
La Corte - prosegue la nota - ha ritenuto irragionevole il bilanciamento operato dalla legge tra due diritti: quello alla riservatezza dei dati personali, inteso come diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla propria persona, e quello dei cittadini al libero accesso ai dati e alle informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni.
Secondo i giudici costituzionali, il legislatore, nell’estendere tutti i descritti obblighi di pubblicazione alla totalità dei circa 140.000 dirigenti pubblici (e, se consenzienti, ai loro coniugi e parenti entro il secondo grado), ha violato il principio di proporzionalità, cardine della tutela dei dati personali e presidiato dall’articolo 3 della Costituzione. Pur riconoscendo che gli obblighi in questione sono funzionali all’obiettivo della trasparenza, e in particolare alla lotta alla corruzione nella Pubblica amministrazione, la Corte ha infatti ritenuto che tra le diverse misure appropriate non è stata prescelta, come richiesto dal principio di proporzionalità, quella che meno sacrifica i diritti a confronto.
In vista della trasformazione della Pa in una “casa di vetro”, il legislatore può prevedere strumenti che consentano a chiunque di accedere liberamente alle informazioni purché, però, la loro conoscenza sia ragionevolmente ed effettivamente collegata all’esercizio di un controllo sia sul corretto perseguimento delle funzioni istituzionali sia sull’impiego virtuoso delle risorse pubbliche.
Ciò vale certamente per i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica nonché per le spese relative ai viaggi di servizio e alle missioni pagate con fondi pubblici, il cui obbligo di pubblicazione viene preservato, dalla sentenza, per tutti i dirigenti pubblici. Non così per gli altri dati relativi ai redditi e al patrimonio personali, la cui pubblicazione era imposta, senza alcuna distinzione, per tutti i titolari di incarichi Dirigenziali.
Si tratta, infatti, di dati che non sono necessariamente e direttamente collegati all’espletamento dell’incarico affidato. Inoltre, la loro pubblicazione non può essere sempre giustificata - come avviene invece per i titolari di incarichi politici - dalla necessità di rendere conto ai cittadini di ogni aspetto della propria condizione economica e sociale allo scopo di mantenere saldo, durante il mandato, il rapporto di fiducia che alimenta il consenso popolare.
A ciò si aggiunga che la pubblicazione di quantità così massicce di dati – senza alcuna distinzione tra i dirigenti, in relazione al ruolo, alle responsabilità e alla carica ricoperta – non agevola affatto la ricerca di quelli più significativi, anche a fini anticorruttivi, e rischia, anzi, di generare “opacità per confusione” oltre che di stimolare forme di ricerca tendenti unicamente a soddisfare mere curiosità. Poiché non spetta alla Corte costituzionale indicare una diversa soluzione più idonea a bilanciare i diritti antagonisti, la sentenza garantisce, insieme al diritto alla privacy, la tutela minima delle esigenze di trasparenza amministrativa individuando nei dirigenti apicali delle amministrazioni statali (previsti dall’articolo 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo n. 165 del 2001) coloro ai quali sono applicabili gli obblighi di pubblicazione imposti dalla disposizione censurata.
Secondo la Corte, l’attribuzione a questi dirigenti di compiti di elevatissimo rilievo – propositivi, organizzativi, di gestione (di risorse umane e strumentali) e di spesa – rende non irragionevole che, solo per loro, siano mantenuti, allo stato, gli obblighi di trasparenza di cui si discute.
Spetterà ora al legislatore ridisegnare - con le necessarie diversificazioni e per tutte le pubbliche amministrazioni, anche non statali - il complessivo panorama dei destinatari degli obblighi di trasparenza e delle modalità con cui devono essere attuati, nel rispetto del principio di proporzionalità posto a presidio della privacy degli interessati.