Dalla conversazione alla documentazione: benvenuti nell’era del selfie
Sherry Turkle insegna presso il Massachusetts Institute of Technology e da anni si interessa degli impatti sociali derivanti dalla diffusione dei new media, con particolare attenzione agli usi che ne fanno i più giovani. Oltre che dalle proprie ricerche, la riflessione pubblicata sul NY Times prende spunto da due aneddoti. Il primo riguarda un esperienza recente capitata alla stessa studiosa: a spasso con un amico attore, è rimasta colpita dalla quantità di persone che gli si sono avvicinate per chiedergli non un semplice autografo, ma una foto da condividere on line. Nell’articolo si apprende che il conoscente non ha acconsentito alla richiesta, ma è stato molto disponibile a chiacchierare amichevolmente con i fan. Più che con una semplice testimonianza, ha voluto ripagarli con una conversazione, ma a detta della Turkle il gesto non è stato particolarmente apprezzato dai più. Erano in cerca di un documento più che di una conversazione - sostiene a riguardo - e pur di possedere una foto dell’incontro, avrebbero fatto volentieri a meno in buona sostanza dello stesso incontro inteso come scambio di idee e pensieri.
L’altro aneddoto riguarda sempre l’ormai insopprimibile tendenza a scattare foto di se stessi (selfies in termine inglese) in qualsiasi momento, ma in questo caso ha avuto una rilevanza planetaria. È accaduto infatti durante i funerali di Nelson Mandela, e ha riguardato, tra gli altri, addirittura il Presidente americano Obama, da più parti ripreso per quella che in molti hanno ritenuto una vera e propria caduta di stile. La studiosa concorda a riguardo, ma sottolinea come il gesto di Obama, al pari del comportamento dei fan del proprio amico attore, sia indicativo di un vero e proprio cambiamento culturale che ci ha travolti di recente. Spostando il focus di ciò che conta davvero dalla semplice condivisione, alla documentazione fine a se stessa:
“Siamo ancora interessati a condividere – si legge in un passaggio del testo – ma adesso il primo obiettivo è quello di possedere una foto della nostra esperienza. Intervisto molte persone chiedendogli dei loro selfies e capisco che ha tutto a che fare con la necessità di tenere traccia delle proprie esistenze. Il mio amico attore ha offerto una conversazione, ma le persone volevano una testimonianza. E ormai siamo abituati a interrompere le conversazioni in qualsiasi momento pur di poterlo documentare. Un selfie, come qualsiasi altra foto, interrompe l’esperienza per immortalare il momento. In questo, è del tutto simile alle altre azioni che compiamo interrompendo il flusso del nostro quotidiano, come ad esempio inviare messaggi di testo durante le lezioni, gli incontri di lavoro, gli spettacoli o anche a cena con gli amici. E sì, anche durante i funerali o ancora più spesso quando siamo a messa. Messaggiamo anche quando siamo a letto con i nostri partner, e guardiamo i politici farlo durante le sedute istituzionali.
La tecnologia – prosegue la Turkle – non si limita a fare ciò di cui abbiamo bisogno. Ha anche un impatto diretto su tutti noi, cambiando non solo quello che facciamo, ma anche e soprattutto ciò che siamo. Con la scusa di documentare ciò che accade, il selfie ci abitua a “mettere in pausa” noi stessi e chi abbiamo intorno (…) e quando ci si abitua ad una vita costellata di pause e inizi, si perde la capacità di riflettere sul momento che stiamo vivendo e cosa stiamo pensando”.
Il tutto suona come un monito: se il pensiero fisso diventa documentare tutto ciò che accade, corriamo il rischio di produrre testimonianze fini a se stesse, svuotate di qualsiasi esperienza reale. Non solo: messaggiando e fotografando di continuo, secondo la Turkle perdiamo anche interesse a parlare con gli altri e con noi stessi. E ad avvalorare questa tesi, in un altro passaggio descrive una sorta di regola non scritta tra i teenager americani: a cena fuori, poniamo in una compagnia di 7 persone, fino a quando sono "solo" in 4 a estraniarsi dagli altri per usare i propri smartphone, non c’è niente di anomalo o scandaloso. Normale o comunque comprensibile -argomenta la studiosa - che anche il Presidente Obama abbia deciso di “prendersi una pausa” durante i funerali di Mandela.
“Abbiamo tutte le ragioni di questo mondo per credere che il Presidente abbia reso il dovuto omaggio a Mandela – scrive a riguardo – ma quando ha scattato quel selfie ci ha mostrato come anche lui, come tutti noi, sia ormai totalmente immerso nella nuova cultura della documentazione e non sia più in grado di prendersi del tempo tutto per sé, privo di pause, anche in occasione di un momento solenne come un funerale”.
Sembrerebbe quasi una deriva incontrastabile, tanto più che nel prosieguo dell’articolo si citano numerosi altri esempi a testimonianza di quanto i nuovi strumenti di documentazione digitale abbiano invaso tutti gli interstizi del nostro quotidiano. Ma quando ci si aspetterebbe una sentenza definitiva, magari avvalorata da quanto la ricercatrice scorge nei comportamenti dei più giovani, proprio dall’osservazione di questi ultimi giungono segnali di quella che potrebbe essere interpretata come una parziale inversione di tendenza.
“Non è troppo tardi per recuperare la nostra compostezza – si legge in chiusura – quelli che mi danno più speranza sono proprio i ragazzi che sono cresciuti con queste tecnologie e cominciano a rendersi conto dei costi che si accompagnano al loro utilizzo. Spesso ad esempio rispondono in maniera positiva all’imposizione di spazi sacri, liberi dalle tecnologie, in cui recuperare tempo per parlare con gli altri o riflettere. Una ragazza di 14 anni mi ha detto di avere chiesto al padre smanettone di occuparsi di lei durante la cena: ‘papà, smettila di googolare. Non mi importa della risposta giusta. Voglio solo parlare con te’. Un altro ragazzo, anche lui quattordicenne, ha condiviso con me questo pensiero: ‘la gente non sa che a volte basta guardare fuori dal finestrino di una macchina, per vedere scorrere il mondo e accorgersi di quanto sia meraviglioso’. Il selfie, come tutte le altre tecnologie, ci impone di riflettere sui nostri valori. È una buona cosa, perché ci sfida a capire chi siamo realmente”.