Guatemala, un archivio digitale aiuta a far luce su 40 anni di violazioni dei diritti umani
Dal 1960 al 1996 in Guatemala si è tenuta una sanguinosa guerra civile tra le forze governative e diversi gruppi di ribelli. Il conflitto ha causato l’uccisione di quasi 200.000 persone e la scomparsa di altre 450.000. Una commissione di giustizia istituita negli anni successivi ha stabilito che il 93% delle violazioni dei diritti umani commesse durante il conflitto è imputabile alle forze della polizia nazionale. A questa verità, e alla graduale scoperta del destino di molti dei civili scomparsi, si è giunti anche grazie al ritrovamento e alla parziale digitalizzazione di circa 80 milioni di documenti ufficiali. La singolare storia che ha portato al loro ritrovamento è stata raccontata da Verge.
Nel 2005, a seguito di un falso allarme bomba, alcuni agenti della nuova polizia nazionale nata all’indomani della guerra civile si imbatterono in un’enorme quantità di documenti all’interno di un edificio abbandonato. Lo stabile era appartenuto al vecchio corpo di polizia e nelle intenzioni di partenza avrebbe dovuto essere un ospedale. La costruzione era stata però interrotta a metà dell’opera e successivamente l’edificio era stato riconvertito in deposito. I documenti versavano in uno stato di totale incuria e abbandono, e da un loro rapido esame fu subito chiaro che si trattava dei fascicoli un tempo custoditi nell’archivio nazionale delle vecchie forze di polizia. Lo spettro temporale coperto andava dal 1881, anno di istituzione del corpo, al 1997, quando lo stesso era stato dissolto. Le carte riguardavano vari tipi di attività, dalle più banali questioni burocratiche e relative alla gestione del personale, alle operazioni di polizia vere e proprie. Tra le altre, i numerosi e sistematici attivi di violenza e repressione messi in atto durante i 36 anni di guerra civile e anche negli anni precedenti, con attività di spionaggio e controllo degli oppositori politici risalenti fino ai primi anni ‘50.
I familiari dei civili uccisi e scomparsi e i movimenti per l’affermazione dei diritti civili avevano cercato a lungo prove del coinvolgimento della polizia in questi crimini. Nel decennio successivo alla fine della guerra civile, l’accesso agli archivi pubblici era stato però rigidamente limitato. Non solo: il nuovo governo aveva negato a più riprese l’esistenza di un archivio delle vecchie forze di polizia.Col ritrovamento casuale dei documenti, il muro di gomma cadde all’improvviso, e i peggiori sospetti su un sistema di repressione brutale e capillare trovarono conferma. Ottenute finalmente le prove, gli attivisti cominciarono a catalogare e in seguito a digitalizzazione i fascicoli, anche grazie al prezioso contributo di svariati archivisti.
Questo lavoro è tuttora in corso. Ad oggi circa 20 milioni di pagine, un quarto dell’intero patrimonio documentale, sono state digitalizzate. Un risultato importante, ottenuto anche grazie al contributo di diverse istituzioni straniere, tra cui i governi di Svezia, Svizzera, Germania e Paesi Bassi e le università del Texas e dell’Oregon. Tra le altre cose, i supporter stranieri hanno fornito nozioni pratiche sui principi di archiviazione, catalogazione e conservazione digitale agli attivisti e archivisti locali, e creato copie di backup per migliaia di file, al fine di prevenire qualsiasi minaccia di loro distruzione.
A seguito di questi risultati, dal 2009 il progetto è arrivato ad un livello tale di avanzamento da permettere di ricostruire le storie di migliaia di desaparecidos. A partire dalla fornitura di informazioni di base quale il nome, la data e il luogo di scomparsa delle persone, gli archivisti necessitano di una quindicina di giorni per trovare risposte. Ad oggi circa 6.000 famiglie hanno inviato loro richieste, e nell’80% dei casi si è riusciti almeno in parte a risalire al loro destino. L’articolo pubblicato su Verge si apre con la storia di Felix Estrada, uno studente universitario scomparso nel maggio del 1984. Grazie alla creazione dell’archivio digitale è stato possibile scoprire che Felix, all’epoca 25enne, fu arrestato assieme ad un gruppo di 27 amici, nell’ambito di una più ampia operazione di repressione passata alla storia come “Caso Diario Militar”. Condotto in un centro clandestino di detenzione e tortura, vi rimase imprigionato un mese, prima di essere ucciso. Grazie alla creazione dell’archivio digitale, i familiari di Felix e delle altre 26 vittime dispongono finalmente degli elementi per chiedere giustizia. Finora nessun ex poliziotto o militare coinvolto in questa particolare vicenda è stato incriminato o addirittura condannato. Per casi analoghi però, diverse persone sono state giudicate e ritenute colpevoli di violazioni dei diritti umani.
Perché l’opera di ricostruzione e simbolica riabilitazione delle vittime possa dirsi completa, è necessario però che l’intero archivio cartaceo venga digitalizzato. Su Verge si apprende che le operazioni procedono ultimamente a rilento, a causa di una progressiva diminuzione dei finanziamenti. All’apice delle attività, un team di circa 100 persone era riuscito a digitalizzare fino a 2 milioni di documenti all’anno. Ora il personale è sceso a 60 unità, e la quota massima si assesta a circa mezzo milione. Di questo passo, si stima che per arrivare alla piena digitalizzazione dell’archivio occorreranno dai 15 ai 20 anni.