L’archivista digitale non esiste
Sibyl Schaefer dirige i programmi di digitalizzazione del Rockefeller Archive Center. A margine del meeting annuale degli archivisti americani, evento durante il quale ha tenuto un intervento dal titolo “We’re All Digital Archivists: Digital Forensic Techniques in Everyday Practice”, è stata intervista da Trevor Ovens, esperto di conservazione digitale della Library Of Congress, e oltre a descrivere i principali progetti e metodi di lavoro della propria struttura, ha provato a spiegare perché secondo lei chiunque oggi si occupa di archivi e conservazione sia, o meglio dovrebbe essere, un archivista digitale. “Non è che tutti dobbiamo diventare archivisti digitali – precisa la Schaefer sul blog The Signal – ma tutti dobbiamo entrare nell’ordine di idee che siamo archivisti che lavorano con contenuti digitali. Non ha più senso, e non è neanche sostenibile, che ci sia una persona, o anche un team, focalizzato sugli aspetti digitali”.
Quando ho cominciato a pensare a come strutturare il nostro team digitale al Rockefeller Archive Center – prosegue – ho pensato di rispecchiare la struttura della mia organizzazione, basata sulle funzioni principali di un archivio: sviluppo delle collezioni, acquisizioni, conservazione, descrizione e accesso. Immediatamente sono giunta alla conclusione che era essenziale integrare le pratiche digitali nelle funzioni esistenti.
Nella nostra istituzione, gli archivisti sono molto orgogliosi della loro conoscenza delle collezioni, e non sfruttare quella conoscenza sarebbe uno svantaggio per le collezioni digitali. Occorre riconoscere che noi possediamo poche collezioni puramente digitali; la maggior parte sono ibride. E non avrebbe senso impiegare una persona per descrivere i soli contenuti analogici e un’altra per quelli digitali. I principi di fondo di questa attività non cambiano a seconda dei formati dei contenuti. Semplicemente, c’è bisogno che i nostri archivisti siano messi nelle condizioni di gestire efficacemente i record digitali; devono fare esperienza nell’utilizzo di strumenti che permettano loro di svolgere questi compiti e siano a loro agio con essi. Allo stesso tempo, devono poter contare sul supporto di qualcuno se hanno problemi da risolvere.
Dato questo approccio, gli archivisti digitali nel mio team devono occuparsi dei software e degli altri strumenti ad adottare, di quali workflow possano essere più adatti ed efficienti, e di come formare il resto dello staff affinché possa seguire questi processi e usare gli strumenti scelti per fare il lavoro. Da un certo punto di vista, gli archivisti digitali non svolgono un vero e proprio lavoro archivistico, e in questo senso lo stesso termine “archivista digitale” ha qualcosa di sbagliato”.
Nell’intervista, che va molto nel dettaglio sul modo in cui al Rockfeller Archive Center si cerca di mettere in pratica questi principi, la Schaefer consiglia anche dei materiali da consultare per gli archivisti che vogliano familiarizzare con questo nuovo status di professionisti (anche) digitali. Le risorse citate, ovviamente in inglese, sono tre:
- Il report “Digital Forensics and Born-Digital Content in Cultural Heritage Collections”, definito un “ottimo punto di partenza” perché in grado di illustrare, in maniera chiara, i vantaggi che derivano dall’uso delle tecniche di forensics nella pratica archivistica. L’esperta afferma che grazie al loro utilizzo “si riesce ad archiviare materiali in digitali in una modalità molto sicura, che permette di conservare più di quanto presente nel loro contesto d’origine. Non solo, queste tecniche permettono agli archivisti possono effettuare ricerche tra questi materiali, o anche revisionarli, senza rischiare di alterarne il contenuto e l’autenticità inavvertitamente”.
- La seconda risorsa è un video su YouTube a cura Peter Chan, esperto di conservazione digitale del quale ci siamo occupati di recente con l’articolo “L’identikit del buon archivista digitale”. Il video è dedicato al trattamento di materiali “nativi in digitale” usando il software Forensic ToolKit. “Guardandolo – spiega la Schaefer – ho capito quanto le sue funzionalità possano servire a mappare le attività tradizionali: dalla eliminazione dei doppioni, alla individuazione dei dati personali o dei record ad accesso ristretto, alla organizzazione dei contenuti per gerarchie. È uno strumento che risponde realmente alla domanda: ok, ora che disponi di un’immagine disco, come la usi? Il video fa passare anche il messaggio che il programma può essere facilmente appreso dagli archivisti”.
- La terza risorsa è infine il report “From Bitstreams to Heritage: Putting Digital Forensics into Practice in Collecting Institutions”. Secondo la Schaefer offre una buona panoramica degli sviluppi recenti in questo ambito, e un’analisi pratica delle potenzialità e dei limiti dei forensic tool al momento disponibili.