Blockchain: nel Medioevo le radici della tecnologia del futuro?

È quanto teorizzato dalla ricercatrice canadese Victoria Lemieux: in passato alcuni oggetti venivano usati come evidenze simboliche del passaggio di beni e valori. Lo stesso meccanismo sarebbe alla base delle soluzioni blockchain basate sui sistemi token

Sarà anche l’ultimo dei trend tecnologici, ma le radici della blockchain risalirebbero addirittura al Medioevo. A sostenerlo è Victoria Lemieux, ricercatrice canadese della University of British Columbia (UBC), da diverso tempo impegnata nello studio dei possibili utilizzi di questo tipo di soluzioni in ambito pubblico e privato. “Dallo storico M.T. Clanchy abbiamo conferme a riguardo - scrive in apertura di un approfondimento per The Conversation - nel Medioevo, durante il passaggio dalle forme di memorizzazione orale a quelle scritta, gli oggetti simbolici rivestirono un ruolo cruciale nella fornitura di evidenze concrete riguardanti transazioni, diritti e titoli di possesso”. Ed è proprio nella permanenza degli oggetti simbolici anche in alcuni tipologie di soluzioni blockchain che si verificherebbe questo interessante cortocircuito tra presente futuristico e passato remoto.

La Lemieux distingue a grandi linee tra tre famiglie di blockchain: mirror, digital record e tokenized system. La prima categoria è quella più assimilabile ai tradizionali sistemi centralizzati di record keeping. In questo tipo di soluzioni, i record digitali  non vengono creati né custoditi nelle blockchain. La loro conservazione avviene in archivi digitali sicuri al di fuori della catena, mentre su quest’ultima viene depositata una sorta di impronta digitale dei record, chiamata hash. È proprio confrontando la corrispondenza tra l’impronta digitale presente nel record e quella depositata nella catena che si può proteggere l’integrità dei record o verificare eventuali manomissioni degli stessi.

Il secondo tipo di sistema è quello dei digital record. In tal caso, i dati digitali vengono creati direttamente nella blockchain, servendosi dei cosiddetti smart contract. Questi ultimi sono programmi informatici che, utilizzando un linguaggio non naturale, forniscono istruzioni alle blockchain sulle operazioni da compiere, quale ad esempio l’invio di fondi da un utente all’altro. Addentrandosi nei dettagli, la ricercatrice spiega che la progressiva diffusione degli smart contract pone degli interrogativi finora privi di risposta. Ad esempio, cosa fare quando si verifica un errore e un programma di questo tipo si comporta diversamente da come previsto, aprendo delle “falle” potenzialmente sfruttabili per fini illeciti. Non solo: la Lemieux sottolinea anche come gli attuali principi, standard e pratiche per la gestione e la conservazione dei record digitali non sono stati progettati per gli smart contract. Di conseguenza, in futuro occorrerà sviluppare nuovi approcci per assicurare l’integrità delle evidenze nel tempo, una sfida secondo la ricercatrice paragonabile a quella cui ci si è trovati di fronte agli albori dello sviluppo di tecnologie come l’email o altre tipologie di documenti elettronici.

Né la prima né la seconda tipologia di blockchain possono però vantare degli “antenati medievali”. Questo varrebbe solo per la terza tipologia, i cosiddetti tokenized system, la soluzione concettualmente più lontana dalle forme tradizionali di record keeping, e per lo stesso motivo anche la più innovativa. Con questo tipo di sistemi, non solo i dati, ma anche altri tipi di asset che simbolizzano specifici beni di valore - quali ad esempio i Bitcoin, i vini e i cibi pregiati, i diamanti e le opere d’arte - vengono inseriti nella blockchain. Ma qualcosa di simile sarebbe già avvenuto secoli fa.

In un Manuale dell’Amministrazione Archivistica risalente al 1937, Sir Hilary Jenkinson citava ad esempio alcuni archivi realizzati in epoca medievale collezionando strane e variegate liste di oggetti. Tra gli altri, lettere, calzature, code di capelli e medicinali, utilizzati come evidenze simboliche di transazioni commerciali e cambi di proprietà avvenuti nel passato. “Oggi  pensiamo a questi beni come oggetti da museo - scrive la Lemieux - all’epoca, in mancanza d’altro, si trattava di veri e propri record informativi”. Un esempio forse più comune e per questo comprensibile sono le banconote e le monete: in passato altro non erano se non degli equivalenti simbolici delle riserve auree custodite nei vari tesori nazionali. Quegli equivalenti simbolici del passato sono assimilabili a livello concettuale ai token, termine col quale oggi si fa riferimento alle riproduzioni dematerializzate dei beni di valore custoditi nelle blockchain. Da ciò l’esistenza di un filo diretto che lega tale tecnologia futuristica ad un passato che siamo soliti rappresentarci così remoto ed estraneo.

Nell’approfondimento della Lemieux non mancano altre citazioni a sostegno di questa tesi. All’epoca delle conquiste normanne ad esempio, spesso la trasmissione di beni e terre avveniva senza la scrittura di documenti. Bastava la consegna di un oggetto simbolico, quale un elmo, un corno o un coltello, come uno ancora oggi custodito negli archivi della Cattedrale di Durham, per dare valore e certezza a determinati scambi. “Al pari di quei coltelli, corni e anelli - conclude la Lemieux - oggi le blockchain della tipologia tokenized system utilizzano criptovalute quali i Bitcoin come rappresentazioni simboliche di beni e valori. La domanda è perciò se la tecnologia blockchain riporterà le repository archivistiche del presente alle loro radici medievali. Torneremo un giorno al futuro?”.

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