"Ben venga il Medioevo Digitale"

Commentando le recenti dichiarazioni di Vint Cerf, la giornalista britannica Hannah Jane Parkinson suggerisce che l’obsolescenza tecnologica potrebbe aiutare a disfarci di tante memorie personali non necessariamente meritevoli di essere conservate per sempre

Siamo chiaramente in presenza di una provocazione, per giunta scritta in punta di penna e col sorriso sulle labbra, ma le riflessioni della giornalista del Guardian Hannah Jane Parkinson sono forse qualcosa in più di un semplice pezzo di costume in risposta a dichiarazioni che hanno fatto davvero tanto rumore. Da quando Vint Cerf – l’uomo con la “qualifica professionale migliore al mondo”, scrive scherzosamente la Parkinson (chief internet evangelist e vice presidente di Google) – ha ammonito sul rischio di obsolescenza che mette a repentaglio la sopravvivenza di gran parte della nostra memoria digitale, le reazioni non sono infatti mancate.

Qualcuno – forse in maniera un pò piccata, e probabilmente sottovalutando il fatto che il messaggio di Cerf era rivolto anche e soprattutto a chi di conservazione digitale finora non ha mai sentito parlare – è rimasto un po’ perplesso di fronte alla presunta superficialità delle sue analisi, e alla mancanza di accenni ai tanti progetti in corso in tutto il mondo per arginare l’oblio informatico. Altri invece, e tra questi la giovane giornalista inglese, hanno scelto l’ironia per affermare qualcosa di abbastanza serio. Ovvero che forse un po’ di amnesie digitali farebbero bene per separarci da pezzi di passato che non è proprio necessario preservare in eterno.

La Parkinson precisa che le sue riflessioni sono rivolte anche e in particolar modo a chi, come lei, tende ad accumulare frammenti, analogici o digitali fa poca differenza, del proprio vissuto. Un po’ di obsolescenza digitale scrive, non può che far bene e recidere il cordone con tante, troppe cose di importanza relativa, discutibile, se non proprio irrisoria. Non che non si renda conto che il problema va ben oltre le singole dimensioni individuali. Nel suo articolo cita la lunga lista di tecnologie ormai morte e sepolte stilata dalla Cornell University, e prendendone spunto riconosce che Cerf ha sottolineato un problema molto serio, perché gli storici di domani potrebbero effettivamente trovarsi di fronte a vuoti di memoria digitale di dimensioni abissali.

Ma per gli individui – continua – siamo sicuri non possano esserci risvolti positivi? Forse, non poter disporre sulla punta delle dita di tutti i nostri ricordi digitali impilati può essere un bene dal punto di vista psicologico.

Provengo da una famiglia di accumulatori seriali. Sul mio telefono, al momento ho salvato più di 5.000 foto. Posseggo due hard disk della portata di un terabyte, colmi di file multimediali e documenti. Andando a ritroso, nel mio armadio, rigorosamente off line, giacciono scatole di scarpe piene di bigliettini di auguri, lettere d’amore, biglietti aerei, cartoline, volantini e regali di dubbio gusto provenienti da molti paesi.

I disturbi mentali non potrebbero essere definiti più sinteticamente di così.

Perché continuare a rimanere così ancorati al passato – è il messaggio della Parkinson – cullandoci nel senso di sicurezza illusorio che può arrivare dalla tangibilità di così tanti ricordi? Un discorso non totalmente privo di senso, anche perché, meglio ribadirlo, la giornalista prende tutt’altro che sottogamba il monito di Vint Cerf.

Cerf – conclude - ha probabilmente ragione quando parla dei rischi di oblio per gli antropologi del futuro, o se si pensa alla eventuale scomparsa di prodotti fondamentali per la nostra civiltà come il sistema MS-DOS. Per noi qui e ora però, forse è davvero meglio che tutto scompaia.

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