Collezioni digitali e crowd, niente sarà come prima

Il sito Library Journal ha dedicato un approfondimento alle potenzialità del crowdsourcing per accrescere il valore di quanto reso accessibile on line da biblioteche, archivi e musei. D’ora in avanti, è la tesi, il contributo dei volontari sarà sempre più fondamentale e indispensabile

È possible scrivere una storia dell’abbondanza ittica di un Paese consultando dei menù? In America ci hanno provato: nel 2005 un team di biologi marini ha cominciato a spulciare i listini storici di 45.000 ristoranti, risalenti fino al 1840 e appartenenti a una collezione della New York Public Library (NYPL). Seguendo l’andamento dei prezzi di aragoste, pesci spada, ostriche e halibut, hanno ipotizzato che più diventava costoso ordinarli, minore doveva essere la loro presenza nei mari. Semplice come bere un bicchier d’acqua, o quasi. Gran parte dei menù era stata digitalizzata tramite software OCR per il riconoscimento ottico dei caratteri e la loro conversione automatica da immagini a testi. Data la varietà del corpus, non sempre però l’opera di “trascrizione” era andata a buon fine. Ai ricercatori toccava riesaminare tutti i documenti, alla ricerca di eventuali errori o imperfezioni. Un compito improbo, che aveva rischiato di mandare a monte l’intera operazione. Poi però, alla NYPL hanno avuto un’idea e nel 2011 è stato lanciato il progetto “What’s on the Menu?”. Da quel momento in avanti, chiunque ha potuto dare una mano ai ricercatori. Ad oggi, grazie al loro contributo sono stati controllati on line quasi 18.000 menù e 430.000 pietanze.

Questa storia viene raccontata in apertura di un approfondimento sul sito Library Journal e porta con sé due insegnamenti. Il primo è che anche la collezione a prima vista più bizzarra, se approcciata con creatività, può essere estremamente utile. L’altro è che d’ora in avanti le biblioteche e le altre istituzioni della conservazione dovranno puntare sempre più sul crouwdsourcing, vale a dire il contributo volontario di migliaia di appassionati, per valorizzare le proprie collezioni digitali. Nell’articolo, firmato dal giornalista Martin Emis, si citano diverse esperienze già promosse o in corso di svolgimento. Soprattutto però, si riflette su se e quanto il crowdsourcing, e più in generale il paradigma della digitalizzazione, rappresenti un vero e proprio salto quantico rispetto al passato, anche quello più prossimo. “La digitalizzazione non è la fine, ma l’inizio di un nuovo ciclo di attività”, dichiara un esponente della NYPL, lasciando intendere che in effetti il cambiamento di prospettiva sia stato radicale. “Una volta digitalizzate e pubblicate on line le collezioni – prosegue – non bisogna pensare che il lavoro sia finito, ma domandarsi: bene, e ora?”.

Ed è proprio in quell’ora che si schiudono praterie per l’intrapresa di progetti di crowdsourcing, non tanto e non solo per raggiungere risultati altrimenti fuori portata, ma anche per stringere nuove forme di relazione con i pubblici esterni. “L’obiettivo principale non è creare centinaia di migliaia di tag grazie ai volontari - riassume un bibliotecario – è molto più importante far capire loro che possono offrire un preziosissimo contributo per creare nuove opportunità di accrescimento culturale sui media digitali”. La parola chiave è dunque coinvolgimento, anche perché in mancanza di quello è abbastanza comune che ad una prima esperienza di collaborazione volontaria non ne seguano altre. E un altro termine strategico potrebbe essere fidelizzazione: la sfida per bibliotecari e affini è di coltivare vere e proprie comunità di pratica e interessi, magari puntando anche sugli aspetti ludici per tenere vivo il fuoco della passione volontaria. Non a caso, sempre più progetti di crowdsourcing puntano sui giochi. Con iniziative dai nomi assolutamente evocativi come The Metadata Games, Zen Tag e Stupid Robot, istituzioni come la British Library, la Boston Public Library, la Digital Public Library of America e la American Antiquarian Society stanno coinvolgendo molto persone nella taggatura di immagini e altri documenti on line. “I partecipanti sono doppiamente gratificati – spiega uno dei promotori – perché apprendono cose nuove e allo stesso tempo arricchiscono il valore delle collezioni digitali”.

Come nei videogames, i volontari digitali si trovano anche a fronteggiare differenti livelli di difficoltà. La Biodiversity Heritage Library (BHL) ha chiesto ad esempio ai propri utenti di classificare una collezione di 100.000 immagini su Flickr con i cosiddetti “machine tags”, etichette che le macchine leggono in automatico. Grazie a ciò, ogni singola foto correttamente taggata viene immediatamente associata a nuove collezioni e repository on line. Non esattamente una passeggiata di salute, perché se ad esempio tutti noi siamo in grado di aggiungere il tag “gatto” alla foto di un micio, diventa un po’ più complicato destreggiarsi tra le tassonomie e i rigidi paletti della sintassi informatica. In questi casi, le cerchie dei volontari tendono ovviamente a restringersi, ma è anche vero che chi partecipa, considerato il livello della sfida, è magari ancora più motivato a farlo.

Dalla lettura delll’approfondimento si apprende anche che un altro aspetto basilare per alimentare il crowdsourcing è legato alla comunicazione. “Più spieghiamo ai volontari il senso del loro lavoro e li teniamo aggiornati sui risultati – spiega una bibliotecaria – più è probabile che rispondano con rinnovato entusiasmo”. Mailing list, social media e simili sono dunque dei territori da presidiare con particolare attenzione per rafforzare i legami e irrobustire le comunità. Infine, anche un pizzico di varietà non guasta: se progetti e obiettivi cambiano frequentemente – sostengono alla BHL – i volontari tendono ad annoiarsi di meno.

Quanto ai crowdsourcer, lo spettro delle iniziative proposte è in tale e progressiva espansione da soddisfare ormai le inclinazioni e le disponibilità più svariate. Magari non tutti guardano con entusiasmo all’idea di fare le pulci a un menù del 1800 o classificare galassie e specie vegetali. Alcuni, molto più semplicemente, hanno solo voglia di portare la propria testimonianza per sentirsi partecipi di qualcosa di più grande. Nel caso, possono prendere parte a progetti di storytelling collettivo come StoryCorps – iniziativa della quale ci siamo già occupati in passato - o il September 11 Digital Archive. Nel crowd c'è posto per tutti. Ciò che serve è trovare il proprio spazio e presidiarlo con passione.

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