Volontari a raccolta per digitalizzare gli Smithsonians
Quando il gioco si fa duro, o in panchina si dispone dei duri, oppure si può sperare nel crowdsourcing. E quanto hanno capito anche alla Smithsonian Institution di Washington DC, dove in mancanza di duri, che fuori di metafora sarebbero risorse inimmaginabili per digitalizzare una collezione di opere praticamente sterminata, hanno deciso di fare leva sull’entusiasmo e la buona volontà di centinaia di appassionati. La missione è delle più dure, erculea come si legge sul Wall Street Journal: si sta parlando di 137 milioni di opere, tra cui una considerevole mole di manoscritti, custodite presso i 19 Musei e i 9 centri di ricerca che fanno capo all’istituzione.
A Washington l’ambizione è di digitalizzarli tutti, con un certosino lavoro di riscrittura elettronica di quanto stampato, o molto più spesso vergato sulle pagine, verifica successiva della bontà delle copie, e pubblicazione on line. Ovvio che ci vorrà del tempo, probabilmente moltissimo tempo. Intanto però, qualcosa ha cominciato a muoversi da quando si è deciso di lanciare un appello per la creazione di un esercito di “amanuensi digitali” disposti a fare una piccola, ma significativa parte del lavoro. Da ogni angolo del mondo, più di 3.000 volontari hanno già risposto presente, si sono rimboccati le maniche, e si sono messi all’opera per decifrare e riscrivere al computer epistolari, manuali di botanica e altre migliaia di opere di interesse storico, culturale, artistico o scientifico.
Persone entusiaste, talvolta estremamente entusiaste, come ad esempio le gemelle Leachman. Da Wellington,in Nuova Zelanda, non solo hanno riscritto in digitale quasi 6.000 pagine, ma già più di una volta si sono sfidate a quelle che allo Smithsonian chiamano “battaglie di pagine”, correggendo di continuo l’una il lavoro dell’altra, in un’opera di perfezionamento reciproco che a volte rischia di sfociare nel maniacale. “Non è che siamo competitive – ha dichiarato una delle due –ma può essere molto fastidioso quando riapri un documento sul quale avevi lavorato, e scopri che qualcuno ha fatto un bel po’ di correzioni”.
Tutto ciò dipende anche dal metodo scelto dalla Smithsonian: alla riscrittura di una pagina possono concorrere anche più “amanuensi digitali”. Ognuno è libero di proporre modifiche e integrazioni al lavoro di un altro, fino a quando qualcuno, dalla sede di Washington, non stabilisce che il documento è finalmente ok per la pubblicazione on line. Sei i mesi passati da quando questo nuovo metodo sperimentale è stato lanciato anche on line, dopo che a Washington era stata allestita una struttura fisica a disposizione dei volontari locali, e più di 30.000 le pagine già digitalizzate e disponibili in rete.
“È anche un modo diverso per far conoscere il nostro patrimonio – ha spiegato una delle coordinatrici del progetto al WSJ – man mano che i volontari si addentrano in questo lavoro, scoprono quanto possano essere vaste e interessanti le collezioni della Smithsonian". Ma grazie al crowdsourcing, anche a Washington e nelle altre sedi dell’istituzione si stanno apprendendo tante cose nuove, anche su collezioni che si pensava ormai di conoscere a menadito. Una curatrice dei manoscritti ha spiegato ad esempio che i volontari sono prodighi di domande sulle opere prese in adozione: “riguardano i contenuti, ma anche gli autori, e a volte ci costringono ad approfondire, finendo per fare nuove, interessanti scoperte”.
Il crowdsourcing, bella scoperta!. E che si tratti di una esperienza sempre più apprezzata nel campo della digitalizzazione delle opere culturali è lo stesso WSJ a sottolinearlo, elencando altri rilevanti progetti in materia. Tra questi ancestry.com, col quale si punta a ricostruire gli alberi genealogici delle famiglie dell’intero pianeta, e zooniverse.com, che alza gli occhi al cielo, anzi migliaia di occhi, nel tentativo di “decodificare” le mappe stellari delle galassie che ci circondano. Ma la palma dell’originalità va senza dubbio a “What’s on the menu”. Promosso dalla The New York Public Library, mira alla riscrittura in digitale di decine di migliaia di menu serviti in passato nei ristoranti storici di tutto il mondo. Anche questa una operazione mastodontica. Ma siccome l’interesse per il cibo non tramonta mai, grazie al contributo di centinaia di volontari, 1 milione e 300mila pietanze sono già state salvate dall’oblio, tradotte in digitale, e messe idealmente in tavola sul sito della biblioteca newyorchese.