Giappone, le mappe militari imperiali rivivono on line
Nella metà del diciannovesimo secolo, mentre gran parte dei Paesi occidentali era impegnata nella colonizzazione dei territori africani, anche il Giappone cominciò a nutrire ambizioni espansionistiche. Uno degli effetti collaterali fu la produzione di mappe dei territori stranieri che si intendeva conquistare, su tutti diverse regioni cinesi e coreane. Inizialmente, ci si limitò e ricopiare mappe già realizzate in passato in Occidente, o a impossessarsi di quelle prodotte nei Paesi nemici. Poi però l’esercito giapponese andò oltre, cominciando a spedire squadre di esploratori oltremare per realizzare mappe più consone ai propri scopi di conoscenza e conquista.
I componenti delle spedizioni lavoravano in incognito, spesso spacciandosi per uomini di commercio, e in più occasioni rischiarono la vita. Nel 1895 ad esempio, un’intera squadra di esploratori fu uccisa in Corea. Nonostante queste difficoltà, e spesso potendo contare solo sui propri passi per misurare le distanze e rudimentali compassi per disegnare, le spedizioni fruttarono la produzione di migliaia di mappe.
Identificate col nome gaihōzu, in italiano “mappe delle terre straniere”, nel tempo si caratterizzarono per alcuni tratti particolari che ne marcarono una profonda differenza rispetto alle carte prodotte nel resto mondo. In molti casi, le mappe giapponesi non si limitavano a mostrare le caratteristiche dei territori oggetto di interesse, ma fornivano anche note dettagliate su aspetti potenzialmente interessanti in vista di eventuali operazioni militari: dalla possibilità di attraccare o meno agevolmente in alcuni tratti di costa, alle condizioni climatiche, ai sistemi di trasporto locali, fino alla presenza di costruzioni potenzialmente riutilizzabili per produrre armi ed equipaggiamenti.
Col passare dei decenni, le spedizioni giapponesi si spinsero sempre più lontano. Tra le gaihōzu arrivate fino ai giorni nostri se ne trovano alcune raffiguranti territori dell’Alaska, della Siberia, dell’India, dell’Australia e del Madagscar. Nessuno storico è in grado di fornire informazioni precise su quante mappe furono realizzate e in quali territori, anche perché su questa attività l’esercito giapponese mantenne il più stretto riserbo. Non solo: con l’approssimarsi della fine della Seconda Guerra Mondiale, ordinò la sistematica distruzione di gran parte di questi documenti.
Non tutti però subirono questo destino. Una volta sbarcati nel Paese, i soldati americani sequestrano migliaia di gaihōzu e le spedirono in patria per metterle al sicuro. Gran parte di queste mappe erano infatti di estremo interesse strategico, non solo e non tanto per chiudere i conti con un avversario ormai in ginocchio, quanto per conoscere meglio alcuni dei nuovi nemici che si affacciavano all’orizzonte, a cominciare dall’Unione Sovietica. Anche per questo motivo, il Map Service dell’esercito statunitense giudicò rischioso conservare tutte le mappe in un unico luogo potenzialmente vulnerabile a seguito di un attacco nucleare. Le carte furono distribuite presso decine tra biblioteche e altre istituzioni culturali del Paese e lì sono rimaste in custodia per decenni, spesso nel più totale oblio.
Da alcuni anni però le cose sono cambiate, in particolare grazie all’interesse di studenti e ricercatori interessati a studiare i Paesi asiatici. È il caso di Meiyu Hsieh, oggi professoressa di storia presso la Ohio State University, 8 anni fa ancora studentessa presso la Stanford University. Sul National Geographic si apprende che la tesi di laurea di Hsieh era dedicata alla dinastia Han. Per sua sfortuna però, gran parte dei reperti archeologici risalenti al periodo della sua dominazione erano andati distrutti a causa di fenomeni naturali o delle moderne politiche di industrializzazione e urbanizzazione. Di essi non c’era più alcuna traccia né sulle mappe di recente produzione, né nelle immagini satellitari. Hsieh era però venuta a conoscenza della presunta esistenza di pile di vecchie mappe riguardanti territori asiatici presso la biblioteca Branner, facente parte dell’ateneo. Spinta dai propri bisogni di ricerca, cominciò a indagare a riguardo. Grazie alla sua curiosità riuscì infine a scovare migliaia di mappe nello scantinato della biblioteca e strinse un patto con il direttore: avrebbe dato una mano a classificare le mappe e in cambio avrebbe potuto consultarle per la propria tesi.
Al termine del lavoro la biblioteca Branner censì 7.353 mappe e organizzò una conferenza nel 2011 per presentarle. In aggiunta, cominciò a digitalizzarle e oggi, a sei anni di distanza, ha iniziato pubblicarle on line, rendendole liberamente disponibili per la consultazione e il download. Sempre sul National Geographic si apprende che a questa collezione se ne aggiunge una di natura affine, pubblicata on line dalla biblioteca della Univeristà Tohoku, in Giappone. In questo caso le carte sono risalite fino ai giorni nostri perché molto probabilmente i cartografi ai quali fu ordinato di distruggerle disobbedirono, garantendo la loro conservazione.
Analizzando questo prezioso patrimonio di documenti, la particolarità di maggiore rilevanza è l’estrema diversità tra i vari esemplari. Come ebbe a dire a suo tempo William E. Davies, capo dei ricercatori del Map Service dell’esercito americano, mentre americani e britannici standardizzarono sempre più gli stili e il design, i giapponesi fecero esattamente al contrario, utilizzando una straordinaria varietà di simboli, colori e formati per disegnare le proprie carte geografiche.