Activist Archivists: il braccio memore di Occupy
Howard Besser insegna Cinema Studies presso la New York University. Per l’ateneo dirige anche un programma finalizzato alla conservazione degli audiovisivi e si occupa di digitalizzazioni in ambito bibliotecario. Non contento di ciò, nell’autunno del 2011 ha fondato Activist Archivists, un collettivo di professionisti offertisi come volontari per aiutare gli esponenti del movimento Occupy Wall Strett. “Ci siamo chiesti cosa potevamo fare per salvaguardare la loro documentazione – spiega al blog The Signal della Library of Congress – e provando a rispondere abbiamo cominciato a occuparci di alcuni temi specifici”.Tra questi, la formazione agli attivisti su una corretta produzione dei materiali, la sensibilizzazione sull’uso delle licenze open e un ulteriore ammonimento: “attenzione, quello che state registrando oggi, domani potrebbe essere usato contro i vostri amici”.
Activist Archivistis si interessa in particolare di documenti audio e immagini in movimento, la grande maggioranza delle quali registrate con gli smartphone. “Si tratta di un aspetto molto interessante per noi archivisti – afferma Besser – ci ha permesso di acquisire nuove conoscenze sui tanti metadati prodotti dai cellulari”. Tra le scoperte, quella forse più ovvia ha a che fare con quanto la privacy sia silenziosamente minacciata da questi metadati. La più sorprendete invece, riguarda il loro decadimento su alcune piattaforme on line: “social media come YouTube eliminano in automatico gran parte dei metadati; così vanno persi elementi molto utili per noi archivisti o per i ricercatori”.
Nell’intervista un passaggio è dedicato all’incontro tra due comunità molto diverse. Avere a che fare con un movimento privo di leader, spiega Besser, costringe a ricominciare da capo di continuo: “in ogni incontro ci potrebbero essere nuove persone, mai incontrate prima, alle quali occorre spiegare le basi teoriche e pratiche per produrre correttamente i materiali”. In alcuni casi però, anche se all’apparenza non sembrerebbe, non c’è poi così tanta differenza: “come pretendere che chi rifiuta l’idea di leadership adotti degli standard o segua delle linee guida? Ma questo è un problema che c’è sempre stato – riconosce ironicamente l’esperto - e raramente è stato risolto anche dove ci sono persone abituate da sempre a prendere ordini dall’alto”.
Il cuore dell’intervista, la parte più interessante per chi si occupa salvaguardia della memoria digitale, indaga il perché dell’interesse di Activist Archivists nei confronti di Occupy:
Fin dall’inizio ci è parso che la maggioranza dei ragazzi pensasse alla storia come a una pila di libri corposi su persone molto famose. Per molti era impensabile che qualcuno in futuro potesse essere interessato alle loro azioni. 30 anni e passa dopo “A People’s History Of The United States” di Howard Zinn, la maggioranza degli storici progressisti sa però benissimo che la storia la fanno le persone normali, specie se riunite in gruppi. Sanno anche che la storia andrà letta partendo dalle collezioni di lettere, cartoline e istantanee. Archivisti e bibliotecari devono quindi spiegare alle persone normali che le loro e-mail, i blog, le foto su Flickr e i post su Facebook saranno il principale serbatoio dal quale si attingerà nel 21esimo secolo per raccontare le loro esistenze. Dobbiamo essere molto aggressivi su questi aspetti, chiederci come collezionare i contenuti digitali, ed elaborare piani per custodirli il più a lungo possibile.
Facile a dirsi, meno a farsi. Specie se, come fa notare l’intervistatrice di The Signal, si ha a che fare con tecnologie che cambiano a ritmi frenetici e nuovi modelli, quale il cloud, che ridefiniscono l’idea di possesso, spostando i contenuti prodotti da milioni di persone su “nuvole” che oggi ci sono, ma domani potrebbero svanire, proprio come le nuvole vere. Problemi che Besser ha ben presenti, ed è forse proprio in questa consapevolezza che risiede il suo interesse per collettivi tanto spontanei quanto forse ancora molto “ingenui” su questi aspetti come Occupy.
Lavorando a progetti come InterPARES II o lo NDIIPP Preserving Digital Public Television Project – conclude – abbiamo capito che occuparsi della conservazione nel lungo periodo solo quando si arriva a trasformare una collezione in un archivio, può già essere troppo tardi. Le cose poi si complicano ancora di più se il creatore dei contenuti è morto. Per questo dobbiamo convincere gli autori sulla necessità di seguire buone pratiche relative ai formati dei file, i metadati, la loro denominazione, la necessità di non comprimerli e quella di diffonderli con licenze open. Tutto ciò deve essere preso in considerazione sin dalla creazione dei materiali, e se non è avvenuto, è bene che ci si pensi quanto prima.
A questo mi riferisco quando sostengo che dobbiamo essere aggressivi. Dobbiamo esserlo sia quando si tratta di fare formazione in materia, sia quando pensiamo a nuove soluzioni per migliorare la gestione delle collezioni.