Costruire contesti, prima ancora che contenuti: un’intervista sul ruolo presente e futuro degli archivisti

La gestione degli archivi, siano essi tradizionali o digitali, richiede competenze altamente specialistiche, perché da essi “dipende ogni passaggio formalizzato della nostra vita quotidiana”. Su Clionet Federico Valacchi, tra i massimi divulgatori nazionali in Italia, riflette sul senso della professione, anche alla luce dei processi di digitalizzazione in atto

Sul sito della rivista di Public History Clionet, è stata pubblicata un’intervista di Matteo Troilo a Federico Valacchi, docente di Archivistica presso l’Università di Macerata e tra i più prolifici divulgatori della materia in Italia. Di recente, Valacchi ha pubblicato due volumi proprio con finalità di divulgazione e messa a fuoco sul senso dell’attività archivistica nell’età contemporanea, anche alla luce degli impatti che la digitalizzazione sta avendo su di essa: l’edizione aggiornata di “Diventare archivisti. Competenze tecniche di un mestiere di confine” (Editrice Bibliografica) e il nuovo “La verità di carta. A cosa servono gli archivi?” (Graphe.it edizioni). 

Nell’intervista, della quale si riporta di seguito la risposta al primo quesito, Valacchi risponde a una serie di sollecitazioni sulle prospettive presenti e future dell’archivistica, nonché, contestualmente, della percezione che si ha oggi degli archivi cartacei e digitali, anche al di fuori delle cerchie degli addetti ai lavori.

“Vorrei partire con una riflessione che riguarda il tema della mediazione digitale con le sue opportunità e criticità. Faccio un riassunto prendendo parte dei suoi testi. La mediazione è il tratto più fisico e inclusivo del mestiere di archivisti e bibliotecari che rende disponibili documenti che possono essere privi di decisivi elementi di contesto. La digitalizzazione può rendere più facile la reperibilità ma sicuramente non la capacità di comprensione della documentazione. ‘Nella rete ci possiamo imbattere in archivi senza archivisti e biblioteche senza bibliotecari. Sarà senz’altro più facile trovarli ma anche più ardimentoso interpretarli correttamente’. ‘Diventare archivisti’ citando il titolo del suo libro apre insomma ad un impegno ancora più grande e a un’esigenza di professionalità maggiore? Affidando a persone poco o per niente preparate grandi archivi digitali si corre il rischio che diventino incomprensibili?

‘Diventare archivisti’, soprattutto nella sua seconda edizione, è un libro davvero di confine, sospeso però tra i molti possibili confini che la disciplina ogni giorno deve attraversare. La specializzazione è il presupposto irrinunciabile per ogni professione accreditata e l’archivistica non fa differenza, malgrado ci sia ancora e sempre chi pensa che con un po’ di buon senso chiunque può governare un archivio. 

È una posizione pericolosa perché la cattiva gestione degli archivi non è un problema archivistico ma un rischio per l’intera collettività. Gli archivi non sono semplici depositi di informazioni “scadute”, sono sistemi complessi di dati qualificati. Dagli archivi dipende ogni passaggio formalizzato della nostra vita quotidiana. Senza archivi non si amministra, non si attestano diritti e doveri, non si sviluppa nessuna attività. La dimensione storica, anch’essa delicata da governare, viene dopo quella politica in senso ampio. 

Gli archivi strumenti di efficienza e quelli digitali in particolare richiedono formazione specialistica, non basta la buona volontà. Esistono leggi, standard e buone pratiche da rispettare. Ignorarle non è una leggerezza archivistica ma un reato penale. Diventare archivisti punta molto sulla polifunzionalità degli archivi e sul rifiuto di uno stereotipo beneculturalista che riesce a cogliere solo la dimensione di archivi percepiti come masse inerti di informazione di natura storica. La stessa idea di memoria che quasi sempre si accompagna all’archivio deve essere interpretata nella sua dinamicità, fuori da suggestioni arcadiche e retroflessioni del pensiero.

Quanto alla incomprensibilità direi che è un problema di lunga durata. La comprensione degli archivi rimanda immediatamente al ruolo di mediatore dell’archivista. Gli archivisti costruiscono contesti ancora prima che contenuti. Vero anche che a volte la costruzione del contesto ha prevalso sui contenuti inficiando la fruibilità, ma senza una mediazione adeguata gli archivi più che incomprensibili rischiano di diventare inaffidabili. 

Anche in questo caso il lavoro archivistico va declinato in ragione delle specifiche finalità della fase del ciclo vitale e delle esigenze degli utenti. In un archivio corrente la risposta rapida alla richiesta di un dato è prevalente mentre negli archivi storici la mediazione contestuale deve avere la meglio. 

Il digitale enfatizza quindi problemi già esistenti ed eviterei, almeno per gli archivi, espressioni come “rivoluzione digitale”, è forse meglio dire “accelerazione digitale”. Il fenomeno va comunque letto dentro a più ampi processi di dematerializzazione, evitando letture meccaniche. È la società che trasformandosi esprime organizzazioni documentarie diverse, non viceversa. 

Gli archivi digitali in formazione non sono banale espressione di automatismi tecnologici e devono rimanere sotto il controllo della funzione archivistica, sia pure adeguata a determinati parametri tecnici. La stessa conservazione di lungo periodo deve essere gestita secondo standard adeguati, evitando di dare ancora spazio alla ingenua e inevitabile fragilità digitale. I documenti digitali devono essere accuditi, come abbiamo fatto, o non abbiamo fatto, per secoli con quelli analogici. È un problema di accudimento e quindi di politiche conservative non di una leggendaria fragilità.

Altro ancora è la digitalizzazione di archivi analogici che pone seri problemi di selezione e ricontestualizzazione. Una vendetta del copista, spesso figlia di digitalizzazioni acritiche, che dissemina nel web archivi a quel punto davvero incomprensibili, quando non fuorvianti”.

Leggi l’intervista integrale su Clionet

 

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ultima modifica 2024-04-11T14:07:27+01:00
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