La "nuova giovinezza” degli archivi nell'era di Internet
Pierluigi Ledda è un manager culturale e dal 2011 ricopre la carica di direttore generale dell'Archivio Storico Ricordi. La sua passione per il collezionismo musicale, e più in generale tutto ciò che ha a che fare con le attività di conservazione con fini di valorizzazione e tutela, lo ha portato negli anni a curare diversi convegni sugli archivi sonori e gli eventi musicali, oltre che svolgere attività di insegnamento in materia.
Di recente, con un contributo personale per Il Post ha formulato un interessante parallelo sulle proprie passioni, che risalgono fino all’infanzia e nel tempo sono sfociate in una vera e propria vocazione professionale, e quella che definisce “nevrosi collezionistica”, vale a dire “una forma di malattia socialmente accettata” che vede nell’archivio al tempo stesso il “sintomo, ma anche una possibile terapia”. “Accumulando, descrivendo e organizzando serie potenzialmente infinite di oggetti - si legge a tale riguardo nell’abstract che introduce la riflessione - descriviamo noi stessi e la nostra cronica insoddisfazione perché ogni cattura è subito rimpiazzata dal pensiero della prossima, delle serie da completare e dei nuovi filoni da scoprire”.
Nella ricchezza e complessità che caratterizza il suo articolo, Ledda fa riferimento all’avvento di Internet e delle reti digitali come a un potente amplificatore del fenomeno di nevrosi archivistica.
“Negli ultimi trent’anni - argomenta - questa smania ha trovato un potente amplificatore nella fioritura di archivi in rete, più o meno certificati. Il World Wide Web per gli archivisti è stato un nirvana a lungo atteso, una sconfinata prateria priva di barriere all’ingresso, che chiunque poteva popolare dei propri archivi personali o istituzionali. Oggi è quasi banale sottolineare l’importanza della digitalizzazione degli archivi e della pubblicazione online di vastissime collezioni, ma Internet ha sempre avuto un’intrinseca vocazione archivistica: uno dei primi motori di ricerca di portata globale come Yahoo! era infatti inizialmente concepito come web directory, ossia come una lista di pagine online catalogate gerarchicamente per temi”.
Ledda riconosce che questa vera e propria “proliferazione incontrollata di documenti e archivi digitali su Internet” abbia avuto conseguenze ambivalenti, in primo luogo perché, per citare le parole del critico musicale Simon Reynolds, “se l’archivio vuole mantenere una qualche integrità, deve saper filtrare e rifiutare, consegnando alcuni ricordi all’oblio. La Storia deve avere una pattumiera, altrimenti la Storia diventerà una pattumiera… per essere funzionale, un resoconto storico deve avere un filtro, altrimenti la melma dei dati finisce per ingorgare il flusso narrativo”.
Sviluppando tali riflessioni, nel prosieguo dell'articolo Ledda fa riferimento alla propria esperienza professionale alla direzione dell’Archivio Storico Ricordi, provando a trarre delle riflessioni a carattere generale a partire dal modo in cui, nel corso degli anni, il suo sterminato ed estremamente variegato patrimonio di fonti e documenti è stato razionalizzato e trasformato in una collezione digitale da navigare e scoprire seguendo diversi percorsi di senso.
“Il mio lavoro, soprattutto agli inizi, consisteva principalmente nel trasformare quella vertigine, nell’organizzare quella moltitudine, rispettandone la complessità e facendo in modo che tutto fosse accessibile non solo a chi nell’archivio ci lavorava o faceva ricerche specialistiche, ma anche (e soprattutto) al mondo esterno.
Si trattava di immaginare un tipo di catalogazione che non rispondesse solo a criteri strettamente archivistici, ma che fosse in grado di restituire una visione globale dell’archivio, individuando un tratto comune tra cose molto diverse. Un esercizio molto utile, dopo mesi di confronti con l’archivista-conservatrice Maria Pia Ferraris, è stato prendere un grande foglio di carta A3 e iniziare a disegnare una mappa. Da un lato c’erano le collezioni di documenti, dall’altro le varie categorie con cui raggrupparli e metterli in relazione: persone, composizioni/opere (che per l’editore rappresentavano dei veri e propri progetti creativi), ma anche luoghi e allestimenti. Quella prima mappa concettuale ha dato il via alla costruzione del primo database dell’Archivio, che negli anni è diventato un vero e proprio software gestionale e che oggi, in parte, va a popolare la collezione digitale dell’Archivio”.
In conclusione, Ledda sembra non sciogliere del tutto i propri dubbi sull’ambivalenza delle reti digitali. Ma al tempo stesso individua gli elementi che più di tutti connotano e caratterizzano la sensibilità archivistica - dalle dimensioni di cura, a quelle di selezione e contestualizzazione - come chiavi fondamentali per provare a sfruttare quanto più possibile le potenzialità del digitale. Sia per valorizzare più e meglio i patrimoni "storici" accumulati nel tempo dagli istituti della conservazione. Sia, ed è forse questa la novità più interessante, per mettere la specificità della professione archivistica al servizio di un compito altrettanto importante, che ha a che fare con la capacità di dare un senso alla quantità sempre più sterminata di contenuti e risorse che giorno dopo giorno vengono prodotti e condivisi sulle reti digitali.
“Forse anche come reazione a un mondo sempre più interconnesso - rapido ma anche distratto, da ondate di memoria collettiva, fake news e notizie irrilevanti – gli archivi vivono oggi una sorta di nuova giovinezza, un’insperata coolness sorta tra le pieghe di Instagram. Molti si sono resi conto che archiviare è una pratica quotidiana di cui prendersi cura. Oggi, come ha scritto il filosofo Emanuele Coccia, i musei e gli archivi non fanno più solo da guida alla scoperta del nostro passato, ma aiutano a navigare in un presente digitalmente vastissimo e complicatissimo, orientandosi con i segni (e i sogni) dei nostri antenati e delle loro scatole di latta”.